domenica 22 dicembre 2013
Siria, nei villaggi cristiani un Natale senza croci
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Grandinate di colpi di mortaio, oppure un diluvio mediatico da social network con accuse e video choc anche in questo Na­tale. È una coltre di terrore che avvolge chiun­que viva in Siria. Una coltre fatta pure di incer­tezza, di perenne dubbio se la granata che ti ha sfiorato è stata un accidente o una misurata ven­detta di chissà chi. Una coltre, come quel pan­no che gli estremisti hanno costretto a mettere sulle croci e sulle statue negli ultimi villaggi cri­stiani nella valle dell’Oronte. Sotto tutte queste coltri, le nuove catacombe.
 
Gli ordini dei miliziani qaedisti, nei pochi vil­laggi cristiani ancora abitati vicino all’Oronte, sono tassativi: «Tutte le croci debbono sparire, è vietato suonare le campane, le donne non pos­sono uscire se non velate, tutte le statue debbo­no sparire». Il rischio è la ritorsione. È la cappa del fondamentalismo islamico, da mesi subentrato all’anima laica e liberale della prima opposizione nelle zone in mano alla ri­volta. Una moneta cattiva che ha scacciato quel- la potenzialmente buona delle prime manife­stazioni popolari, mentre il regime autore di raid quotidiani sui civili, si erge a paladino dell’ordi­ne e a tutore, un po’ troppo interessato, della mi­noranza.
 
Sono i cristiani di Siria, sempre più va­so di coccio fra vasi di ferro. Sono le nuove cata­combe. Ma non si deve fare «di ogni erba un fascio», am­monisce una fonte della Chiesa siriana sotto a­nonimato: così nei dintorni di Latakia riferisco­no che il parroco ha avuto il coraggio di guardare in faccia il capo delle milizie. Ha accettato di co­prire i simboli cristiani, ma in cambio riesce a svolgere le liturgie senza «che ci tocchino un ca­pello ». Anzi, il dialogo starebbe dando buoni frutti anche per rintracciare alcuni rapiti.
 
Sono le nuove catacombe, in cui si deve sopravvivere tra apparente normalità e l’ansia che il futuro sia solo vuoto. Come a Maalula, il villaggio simbolo dei cristia­ni dove si parlava ancora aramaico. È un deser­to silenzioso. Nessun pellegrino, nessuna litur­gia in vista del Natale. Si è combattuto fino a po­chi giorni fa: è almeno la terza volta che il fron­te attraversa, come un perfido aratro, il villaggio dei cristiani. A settembre gli attacchi dei ribelli, poi la riconquista dell’esercito. Infine, in questo dicembre, la nuova controffensiva dei gruppi qaedisti nel villaggio scavato nella roccia a una cinquantina di chilometri da Damasco.
 
L’ultimo grido mediatico, prima di questo lun­ghissimo silenzio di Natale, è stato il video di suor Pelagia Sayyaf, la superiora del monastero siro-ortodosso di Mar Taqla (Santa Tecla) ripre­sa dalla vicina città di Yabrud: «Stiamo bene» e riceviamo un «ottimo trattamento». Prelevate a forza il 2 dicembre, le religiose avevano lasciato intendere una possibile liberazione entro due giorni. Speranze deluse mentre numerose fon­ti diplomatiche hanno confermato successivi contatti. «Un sequestro anomalo, diverso da quello degli altri religiosi», forse con l’intento di togliere la comunità monastica dalla linea del fronte. Ma c’è pure chi ipotizza richieste di ri­scatto.
 
Ma più che persecuzione è un senso di nichili­smo, di abbandono, di incertezza a paralizzare. «Quando ti cade un mortaio dentro casa non sai mai se eri tu il deliberato bersaglio o se è solo un incidente collaterale». E ormai ogni famiglia, cri­stiana o musulmana, ha un morto da piangere o un disperso da ricordare. Per questo chiese, conventi e semplici famiglie diventano inconsapevoli bersagli: di una perse­cuzione o di una furia omicida. Comunque ber­sagli. Eppure anche a Damasco, al di là di ogni setta­rismo e odio politico, sarà Natale: un maxi-scher­mo manderà in diretta il messaggio “Urbi et or­bi” di papa Francesco.
 
Nessuno, al di là delle i­nevitabili speculazioni politiche, ha dimentica­to l’incredibile mobilitazione mondiale della ve­glia di preghiera dello scorso 7 settembre. Ma sarà Natale anche nel silenzio delle carceri, nei tuguri dei rapiti – dove da 5 mesi è prigioniero pure padre Paolo Dall’Oglio. Sarà Natale nel ge­lo delle tende dei profughi. «Uno tsunami di sof­ferenza umana, come quello che ho vissuto in Sri Lanka», confida il nunzio Mario Zenari. La speranza è di un uguale «tsunami di solidareità». Sospiri dalle nuove catacombe.
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