sabato 6 agosto 2011
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«Calamità naturale? Assolutamente no. La carestia che flagella il Corno d’Africa è il prezzo del fallimento di uno Stato, quello somalo. Che in vent’anni non è riuscito a imporre un’autorità effettiva sul territorio. Ma è anche il prezzo del disinteresse della comunità internazionale. A parte interventi sporadici, siamo rimasti a guardare l’agonia della Somalia, lacerata da una guerra senza fine». Non si nasconde dietro le parole Paul Collier, direttore del Centre for the Study of African Economies dell’Università di Oxford e uno dei maggiori esperti internazionali di economie africane. Negli interventi o nei suoi libri – come “L’ultimo miliardo”, edito in Italia da Laterza –, non ha paura di assumere posizioni “politicamente scorrette”. Dopo decenni trascorsi a studiare il problema della povertà – ha diretto il dipartimento ricerche della Banca Mondiale ed è stato consulente nella Commission on Africa del governo Blair –, ha maturato la convinzione che la violenza politica sia un «male pubblico internazionale». Primo, perché le guerre civili sono uno dei quattro fattori che «intrappolano» nella miseria una Parte consistente del Sud del Mondo. Il mancato sviluppo dei cosiddetti Paesi dell’ultimo miliardo – le 58 nazioni più povere dove vive un miliardo di persone, tra cui spicca la Somalia – ha costi salati. Per le società in questione, condannate alla povertà, ma anche – e questo è il secondo aspetto fondamentale della questione – per il resto del pianeta.Il solito messaggio “buonista”, professor Collier?Niente affatto. Non mi riferisco alla questione morale. Parlo da economista. Una guerra civile ha delle pesanti ricadute economiche. Innanzitutto per il Paese coinvolto e per i suoi vicini, con effetti duraturi. Secondo i miei calcoli, il costo del tipico conflitto civile in una «società dell’ultimo miliardo» equivale ad almeno due anni di reddito, circa 20 miliardi di dollari. Poi, ci sono i danni collaterali globali.Quali sono?Criminalità, terrorismo e malattie. Il collasso dei sistemi sanitari e i movimenti in massa di rifugiati creano le condizioni per il prosperare di epidemie. Dalle ceneri di uno Stato, poi, nascono territori in cui la criminalità internazionale o gruppi terroristici trovano un rifugio ideale. Il caso Somalia è emblematico: gli stessi Usa ad un certo punto hanno deciso di intervenire contro le Corti islamiche per paura di legami tra queste e al-Qaeda. Ma si è trattato di un’azione solamente difensiva. La pirateria, inoltre – che ostacola la libera circolazione in uno dei punti nevralgici del pianeta: la rotta per Suez – è sempre un prodotto del caos somalo. Un altro esempio? Il 95 per cento della produzione di droghe pesanti avviene in Paesi in conflitto…Ecco, la Somalia appunto. Aiutarla, dunque, è anche nel nostro interesse. Ma come farlo in modo corretto?Ci vuole uno sforzo internazionale coordinato e coerente. A guidarlo materialmente dovrebbero essere altre nazioni africane e mediorientali col supporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Attenzione, però, quando parlo di Stati africani non penso a quelli più confinanti con la Somalia. Questi ultimi sono troppo coinvolti. Ovvero hanno degli interessi propri – in quanto vicini – che rischierebbero di prevalere sul fine generale: la costruzione di uno Stato somalo.Mogadiscio non può farcela da sola?Finora non ci è riuscita. Per una ragione chiara: la sicurezza è un bene pubblico che richiede una produzione di scala. I Paesi dell’ultimo miliardo, come la Somalia, hanno strutture e istituzioni troppo deboli. Non hanno i mezzi per compiere l’enorme investimento necessario alla formazione di istituzioni stabili. All’Europa ci sono voluti secoli per uscire dal caos seguito al crollo dell’impero romano e organizzarsi in Stati.Una missione dell’Unione Africana, in realtà, è attualmente in corso in Somalia…Quando parlo di sforzo globale penso a un intervento di ampie proporzioni. Come quello attuato dagli Usa nell’Europa distrutta dalla seconda guerra mondiale. Un piano Marshall per la Somalia?Il modello è quello. Non mi riferisco solo, però, alla distribuzione di aiuti che, indubbiamente, è necessaria. Le nazioni ricche devono cambiare la loro politica di sicurezza, la politica commerciale, gli standard internazionali. Quando l’America l’ha fatto, in funzione antisovietica, nel secondo dopoguerra, ha funzionato. Perché non dovrebbe funzionare ora?
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