giovedì 4 giugno 2015
​Reportage da un Paese segnato dalla violenza di strada: 14 delitti al giorno, periferie taglieggiate. E la popolazione chede asilo nei Paesi vicini. (Lucia Capuzzi)
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«Ana, la mia migliore amica, è partita sei mesi fa. Per dove? Non lo so. È andata via da un giorno all’altro. I suoi non potevano pagare la  'renta'». A Chancala, quartiere nel sobborgo di Mejicanos, alla periferia di San Salvador, non versare il pizzo settimanale alla Mara 18 (M18) – banda criminale che controlla il territorio – equivale a una sentenza di morte. Eva ha appena compiuto 14 anni eppure conosce perfettamente le leggi del terrore in vigore in gran parte di El Salvador. Le elenca con ostentata indifferenza durante una pausa del laboratorio artistico organizzato dall’Ong SoleTerre nel cuore di Mejicanos, tra i luoghi più letali del terzo Paese più violento al mondo. Quest’ultimo dato Onu, in realtà, si riferisce all’anno scorso: con 635 omicidi nel solo mese di maggio – in media 20 al giorno –, la nazione rischia di scippare il macabro record all’Honduras. «Non fare domande, voltarsi dall’altra parte quando incontri i 'pandilleros' (esponenti della banda) e, soprattutto, pagare quanto chiedono», afferma Eva. E se non si hanno abbastanza soldi, fuggire. Come i genitori di Ana, una casalinga e un lustrascarpe. «Un giorno i mareros (ragazzi delle maras) si sono presentati dalla vicina. Era anziana e sola. Le hanno offerto 200 dollari per comprare la casa. Li ha presi e se n’è andata quella stessa notte. Non poteva rifiutare, l’avrebbero uccisa. Ma con 200 dollari non comprerà mai un’altra casa…», racconta Moisés. Ha 15 anni e vive a Residenciales del Correal, sempre a Mejicanos. Là, però, comanda la Mara Salvatrucha (Ms), nemica mortale della M18.   Il confine tra le due zone è invisibile quanto invalicabile. A segnarlo è un incrocio. Chi lo attraversa senza "permesso" – delle bande, ovviamente – rischia la vita. Lo sanno bene due universitari venuti tre mesi fa dal centro per visitare la zia. Li hanno ammazzati appena svoltato l’angolo: la Ms pensava fossero spie della M18. La legge delle maras non ammette ignoranza né deroghe. «A noi hanno dato un ultimatum di due ore – racconta una donna di 60 anni, troppo spaventata per dire il suo nome –. Poi, insieme ad altre 13 famiglie, abbiamo dovuto lasciare il condominio di San Valentín, nel nord di Mejicanos». Ora vive a Apopa, a mezz’ora da San Salvador, dove l’ha ospitata una sorella. «Non ho denaro per affittare un appartamento. La casa di San Valentín era tutto ciò che avevo», dice con un filo di voce. Storie come queste si ripetono ogni giorno. E i desplazados (sfollati) a causa delle maras si moltiplicano. Una moltitudine errante che si sposta da una parte all’altra della città o del Paese per sfuggire alle bande. Non accadeva dai tempi della guerra civile, finita 23 anni fa. I dati, appena diffusi dal Consiglio norvegese per i rifugiati sono allarmanti: 288.900 sfollati interni, più della metà dell’intera America Centrale (circa 550mila). I primi casi risalgono al 2009. Il picco, però, si è raggiunto nell’ultimo anno.   «La violenza provoca una migrazione "ad allontanamento progressivo" – spiega padre Mauro Verzelletti, responsabile della casa rifugio per migranti di San Salvador –. Le famiglie prima cambiano quartiere. Ma, in genere, incappano negli stessi problemi e, allora, si trasferiscono in un’altra città o in campagna. Alcuni, alla fine, emigrano oltre frontiera ma sempre all’interno della regione». Perché non prendono la tradizionale rotta verso "El Norte", gli Usa? La maggior parte non ha i 7-8mila dollari per pagare il coyote (trafficante di esseri umani) che lo faccia entrare, illegalmente, negli Stati Uniti. Le maras si accaniscono sulle periferie emarginate, dove la presenza dello Stato è più debole. M18 e Ms si sono, in pratica, spartite le cinture urbane: secondo l’esperto del ministero della Giustizia, Milton Vega, 2.024 sobborghi sono sotto la loro "influenza".   L'emigrazione verso gli Stati Uniti, in realtà, continua, «al ritmo di 250-300 persone al giorno. Nel 2014, sono stati rimpatriati dagli Usa 51.480 salvadoregni», afferma padre Verzelletti. La criminalità indubbiamente alimenta il flusso. «Questo, però, è il prodotto di un insieme di fattori: in primis, il desiderio di avere prospettive di lavoro. Vi è, poi, il "sogno americano", propagandato dai media. E la volontà di ricongiungersi ai parenti: quasi due milioni di salvadoregni risiedono negli Usa», dice David Morales, procuratore per i diritti umani. All’attrazione di "El Norte" si sta, però, affiancando una forte migrazione intra-regionale legata alla criminalità. In un anno, sono raddoppiate del 200 per cento le richieste di asilo di salvadoregni in Costa Rica. Aumentate in modo esponenziale anche le petizioni a Panama e Nicaragua.  «La maggior parte degli sfollati, però, non fa domanda. Ha troppa paura. I numeri reali potrebbero essere perfino peggiori degli anni del conflitto», conclude padre Mauro. Un dato è certo: la nuova emorragia coincide con la rottura della tregua tra gang, l’estate scorsa.   "Tregua" è una parola in grado di surriscaldare perfino la temperatura tropicale di El Salvador. Difficile trovare un’opinione spassionata sul tentativo di negoziato con le maras del 2012. Nate nei ghetti di Los Angeles, dove erano riparati i piccoli profughi del conflitto negli anni Ottanta, le bande sono state reimportate in patria grazie alle espulsioni di massa del decennio successivo. Il caos del dopoguerra e le liberalizzazioni selvagge hanno fatto in modo che altri giovani ne ingrossassero le file. «Il boom si è avuto, però, con la politica di "mano dura", tolleranza zero, del 2003/2004: gli arresti indiscriminati e la violenza della polizia hanno prodotto un’ondata di "consenso" sociale verso le maras. E queste ultime si sono radicalizzate, diventando strutture criminali potenti, specializzate in estorsioni e sequestri», spiega Óscar Alirio Campos, coordinatore dell’Unità di giustizia penale minorile della Corte Suprema. La svolta politica è avvenuta con il precedente governo, il primo di centro-sinistra, guidato dal presidente Mauricio Funes. L’esecutivo non ha preso ufficialmente l’iniziativa di aprire un dialogo con le bande. A mediare con i boss detenuti, a titolo personale, sono stati l’ex guerrigliero Raul Mijango e il vescovo Fabio Colindres. In cambio di un regime carcerario più morbido per i loro leader, Ms e M18 hanno smesso di combattersi. Gli omicidi si sono dimezzati, passando da 70 ogni 100mila abitanti nel 2011 a 39 due anni dopo.  Secondo gli oppositori, si sarebbe trattato di una "pausa tecnica" delle maras per prendere fiato e riorganizzarsi, perfezionando e ampliando la macchina delle estorsioni.   «La tregua non ha dato i risultati sperati», sintetizza Gregorio Rosa Chávez, vescovo ausiliare di San Salvador e storico collaboratore del Beato Óscar Romero. La nuova amministrazione – sempre di centro-sinistra – al potere da un anno, è dello stesso parere. Per questo, ha invertito la rotta. La tregua – agonizzante da mesi – è stata archiviata a gennaio, quando sono finiti i benefici carcerari per i boss detenuti. E ora? Se né il pugno di ferro né il dialogo hanno funzionato, che fare per fermare lo tsunami di violenza? Seduto sotto un albero di mango, nel cortile accanto alla chiesa di San Francisco, monsignor Rosa Chávez cerca le parole giuste per rispondere. Insieme ai sacerdoti Jesús Delgado e Rafael Urrutia e al laico Roberto López, il vescovo rappresenta la Chiesa Cattolica nella Commissione per il dialogo nazionale sulla sicurezza creata dall’esecutivo, il 29 settembre scorso. «La novità è che si chiede alla società civile di formulare proposte. Non si calano soluzioni dall’alto», spiega monsignor Rosa Chávez. Si parte, al contrario, dal basso, da quelle componenti che con le maras lavorano a stretto contatto. «Non basta negoziare privilegi, come avvenuto con la tregua. È necessario un approccio multidimensionale che includa investimenti in prevenzione, lavoro con i familiari e con i 'mareros' più anziani e stanchi, costruzione di alternative alla gang». Il vescovo riflette un attimo e dice: «Dobbiamo essere creativi. Monsignor Romero ci ha insegnato che la violenza ha molte facce, la prima è l’emarginazione. Si deve andare alla radice dei problemi per risolverli. La sua testimonianza ci aiuti a costruire un presente e un futuro di pace per El Salvador».
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