sabato 26 marzo 2016
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«Il responsabile è Abaaoud». Io? «Facevo come diceva mio fratello» Aquanto sembra, non si è fatto troppi scrupoli, Salah Abdeslam, e, durante il primo interrogatorio con le autorità belghe – il 19 marzo – di bugie ne ha dette parecchie, e pure clamorose. Al netto di evidenti contraddizioni, però, il suo racconto fila, procede con logica e sequenza credibili, dai giorni precedenti gli attacchi dei 13 novembre a Parigi, fino all’arresto, il 18 marzo, durante il blitz nel quartiere di Molenbeek. E conferma il suo ruolo-chiave in quelle stragi, collocandolo però in una posizione più defilata rispetto a quanto emerso finora. È stata l’emittente BFMTV ad ottenere le trascrizioni di quell’interrogatorio, avvenuto il giorno dopo l’arresto. A Salah è stato concesso il tempo necessario per riprendersi dall’intervento del giorno prima (durante il blitz era stato ferito a una gamba), e poi sono cominciate le domande. In fondo nemmeno troppe: sembra sia stato più che altro lui – unico terrorista sopravvissuto al massacro di Parigi – a parlare. Un’oretta. Incastrando con efficacia i tasselli del sua versione dei fatti. A partire da una premessa: la responsabilità di quegli attacchi è stata solo di Abdelhamid Abaooud – il belga di origini marocchine ucciso nel raid al covo di Saint Denis, nella banlieue parigina, qualche giorno dopo le stragi –, in effetti da sempre considerato la “mente” di quella terribile operazione. «È stato mio fratello a dirmi che Abaooud era il responsabile. Io l’ho incontrato a Charleroi – uno dei covi – la notte tra l’11 e il 12 novembre 2015. È l’unica volta che l’ho visto in vita mia». Una menzogna spudorata, hanno spiegato fonti a Le Monde, perché sarebbe ampiamente dimostrato che Abdeslam e Abaaoud erano amici d’infanzia, a Molenbeek. Ed erano anche stati condannati insieme per rapina nel 2010. Com’è difficile credere a Salah quando dichiara di non conoscere i due fratelli Bakraoui, che si sono fatti esplodere nei giorni scorsi a Bruxelles, e neppure Najiim Laachraoui, l’artificiere della cellula parigina, morto kamikaze all’aeroporto di Zaventem. Forse questo tipo “ricordi”, ripuliti da paure o maldestri tentativi di depistaggio, si “chiariranno” più in là nella testa del giovane. Più certo il percorso che individua da lì in poi. Intanto, Salah riconosce il suo importante ruolo logistico nella preparazione degli attacchi in Francia. Ammette di aver «noleggiato auto», «affittato appartamenti », «prenotato stanze d’albergo». Ma sempre e solo «su richiesta di mio fratello Brahim». La figura di Brahim Abdeslam, più grande di cinque anni, emerge come predominante nel racconto del ventisettenne. «Ogni volta che ho dovuto pagare qualcosa per preparare quegli attentati, i soldi me li dava lui. E non so come se li procurasse». Ma mentre Brahim il 13 novembre si fece esplodere al Cafè Comptoir Voltaire, Salah ci ripensò. «Dovevo entrare allo Stade de France come spettatore, ma non avevo il biglietto. Ho parcheggiato, ho lasciato giù gli altri tre – i tre membri del commando poi entrati in azione – e ho agito d’istinto: sono ripartito. Ho guidato alla cieca, mi sono fermato da qualche parte, non so più dove. Ho chiuso la macchina, portato via la chiave, e ho preso la metropolitana. Una fermata o due e sono sceso. Ho camminato fino a un negozio di telefoni: ne ho comprato uno e ho contattato una sola persona: Mohammed Amri». È Amri che, con un amico, partirà immediatamente da Bruxelles per andare a prendere Salah a Parigi. E lì inizia la lunga fuga. Prima chiede ospitalità ad “Abdel”, alias Mohamed Belkaid, ucciso nel raid di Forest di settimana scorsa a Schaerbeek. «Non avevo un altro posto dove andare. Abdel non è stato contento di vedermi tornare. Gli ho detto che non ero riuscito a farmi saltare in aria, e mi ha promesso che mi avrebbe tenuto nascosto per un po’». Poi dieci giorno dopo, tutti si spostano in taxi a Forest, dove Belkaid ha un appartamento. Esattamente quello nel quale la polizia fa irruzione il 15 marzo. Salah riesce a scappare. Dritto a Molenbeek. Tre giorni dopo, la cattura. «Sono contento, non ne potevo più», le sue prime parole. Dopo il primo interrogatorio, e soprattutto dopo le stragi all’aeroporto e alla metropolitana, di due giorni dopo, Salah ha deciso di non parlare più. «Non risponde, né collabora. Si rifiuta di fare la minima dichiarazione», ha fatto sapere la procura. «Fa uso del suo diritto al silenzio», è stato precisato. Già. © RIPRODUZIONE RISERVATA L’avvocato di Salah, Sven Mary ( LaPresse)
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