giovedì 30 agosto 2012
Il mantra del candidato alla vicepresidenza: il primato al mercato. Il 42enne presidente della commissione Bilancio è tra gli esponenti della nuova corrente anti-tasse e anti-spesa pubblica. La “first lady” repubblicana promette: «Mio marito non fallirà».
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​Deputato a 28 anni, presidente della commissione Bilancio e ideologo della nuova corrente repubblicana anti-tasse e anti-spesa pubblica a 40. Candidato alla vicepresidenza a 42. E Paul Ryan ha appena cominciato. Ma non sarà una nuova Sarah Palin, il super disciplinato, attraente, preparatissimo numero due di Mitt Romney. Nessuna caccia alla popolarità a basso costo per Ryan, che punta in alto da quando aveva 16 anni, e non ha mai perso un’opportunità prendendo scorciatoie o commettendo errori stupidi. La seconda serata della convention repubblicana a Tampa ha messo in evidenza il suo rigore. Come esperto di economia, ha sempre difeso il primato del mercato sullo Stato e il bisogno di ridurre l’influenza del governo nella vita dei cittadini – e soprattutto delle imprese. Come cattolico, ha sempre difeso la vita senza compromessi, firmando proposte di legge che metterebbero al bando l’aborto in qualsiasi caso.Ma nel suo attesissimo discorso di ieri il deputato del Wisconsin, che si alza ogni giorno alle 5 per andare in palestra e prevenire l’infarto che ha stroncato suo padre, nonno e bisnonno, ha saputo tenere il suo posto nella gerarchia. Ryan ha resistito alla tentazione di «uscire dai binari» come l’ex vice di John McCain, che ancora si mangia le mani per aver permesso alla Palin di deragliare la sua candidatura quattro anni fa. Ieri sera Ryan ha invece docilmente sottolineato la capacità di Romney di «cambiare» la direzione presa dal Paese con Barack Obama, facendo disciplinati riferimenti allo slogan del secondo giorno della convention «we can change it» («possiamo cambiarlo»). E ha parlato di sé in toni meno trionfalistici dell’altro astro nascente del partito, il governatore del New Jersey Chris Christie, che martedì sera ha galvanizzato la base repubblicana con il suo acume retorico, ma ha limitato le lodi del «capo» a poche frasi. Un politico deve farsi rispettare per la sostanza del suo impegno, e non farsi amare dalle masse per il suo carisma (riferimento ad Obama), aveva detto infatti Christie. Aggiungendo poi: «È ora di mandare un vero leader» a rimpiazzare il capo della Casa Bianca «che non sa cos’è la leadership». Ma non era chiaro se stesse parlando di se stesso o di Romney.A sollevare le sorti del candidato martedì sera ci aveva pensato invece la moglie Ann, che ha sottolineato l’amore del marito per l’America e la sua intensa determinazione a lavorare «più di chiunque altro» per risollevarla («Non fallirà, non vi deluderà», ha promesso). Ryan invece ha parlato di Romney come di un mentore, di un uomo al quale guarda con rispetto per il suo pragmatismo e la sua determinazione di lasciare che l’America ricostruisca il suo successo, «senza aiuti dallo Stato». Una lode che Romney sicuramente ha gradito nell’attuale contesto di un Grand Old Party super conservatore, ma che sarebbe suonata fasulla, e quasi offensiva, al governatore del Massachusetts fino a cinque anni fa, quando usava fondi pubblici per investire in aziende o settori promettenti, come le fonti energetiche rinnovabili. Ryan non ha mancato di raccontare la sua storia, ma più che altro per farsi conoscere dagli americani e per presentarsi come un ragazzo comune, il figlio (sebbene alla quinta generazione) di immigrati irlandesi che, gli strateghi di Romeny sperano, può consolidare le simpatie degli operai e dissolvere la paura della sua proposta di privatizzazione dell’assistenza sanitaria pubblica per gli anziani, che non piace al 49% degli americani.Ieri è stata anche la serata del ritorno sulla scena politica di Condoleezza Rice, che ha trascorso gli ultimi quattro anni lontano da Washington. È l’unica rappresentante dell’ultima amministrazione repubblicana che, per la sua serietà e popolarità, la campagna di Romney non ha avuto paura di riportare a galla. E la Rice è riemersa combattiva, tuffandosi senza esitazione, e un po’ a sorpresa, nelle scaramucce politiche dalle quali ha sempre cercato di distanziarsi. L’ex segretario di Stato Usa ha infatti sfidato Barack Obama a «permettersi dopo tre anni e mezzo di mandato di continuare a dare la colpa di tutto quello che succede in questo Paese» all’ex presidente Bush. «Ora – ha concluso – qualsiasi cosa succeda dipende dall’attuale inquilino alla Casa Bianca e questo la gente lo sa».
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