venerdì 17 agosto 2012
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Arrivano a centinaia su vecchi pullman impolverati, taxi collettivi, api Suzuki e camion porta-merci. I più giovani stanno dietro, davanti siedono donne e anziani. Si concentrano al check-point di Reyhanli intorno alle sei del pomeriggio, quando fa meno caldo. Sono i profughi di Aleppo in procinto di attraversare la frontiera. Li incontriamo ad Atme, villaggio siriano a ridosso del confine, mentre si mettono in fila per i controlli di rito sotto i metal-detector della polizia turca. «Non avrei mai pensato di diventare un profugo – racconta un uomo sulla cinquantina –. Ho sei figli, proprio come il mio povero vicino morto assieme a tutta la sua famiglia. Una bomba è caduta sopra la loro casa, a Ibeen, dove abitiamo anche noi, nei pressi di Aleppo». Al fianco all’uomo, un adolescente aiuta la nonna di settant’anni a scendere dal furgone dove sono accatastati alla buona valigie, olive in salamoia, sottaceti, ventilatori e taniche di benzina. Un altro prende in braccio la sorellina disabile. Da un pullman scendono poi una ventina bambine: indossano i vestiti migliori, hanno polsi e orecchie adornati con gioiellini d’oro. «Portiamo con noi le cose più preziose – spiega una madre di tre piccole – non sappiamo se quando torneremo ritroveremo ancora le nostre case, cadono tante di quelle bombe che sembra vogliano radere al suolo tutta Taftanaz. Sono mesi che camminiamo con il viso all’insù per evitare la morte che ci piove addosso». Il villaggio si trova nella regione di Idlib, sotto assedio da oltre un anno. È da quest’area che provengono la maggior parte dei 50mila profughi siriani ospitati nei campi turchi della Mezzaluna rossa. Da al-Ansari, invece, quartiere periferico di Aleppo, due fratelli sono fuggiti perché, nonostante l’aviazione non li stia bombardando, «manca tutto: cibo, acqua, ci hanno persino staccato la corrente e la linee telefoniche».Alle donne di Atme la presenza dei profughi di passaggio e del Esercito libero siriano (Els) ha aumentato enormemente il lavoro: il numero di uomini nel villaggio è decuplicato nel giro di tre mesi, cucine e lavanderie sono in continua attività. I generali disertori hanno deciso stabilire ad Atme il loro quartier generale grazie alla protezione aerea della Turchia che, dopo l’abbattimento del jet turco da parte di Damasco, non permette all’aviazione siriana di avvicinarsi troppo al confine. Chiediamo a una donna, madre di cinque figli, se è infastidita dalla presenza di tanti militari. Prima ancora di aprire bocca, però, è suo marito a rispondere per lei: «Certo che non le danno fastidio, sono qui per proteggerci». Agli angoli delle strade, le ragazzine scambiano maliziosi commenti sugli stranieri (giornalisti, medici, combattenti) che arrivano in quello che fino a un anno fa era uno sperduto paesino da cui tutti fuggivano per studiare e lavorare ad Aleppo, Latakia o Damasco. Ruweida, sedici anni, hijab bianco e abitino sopra i jeans, studia nella scuola al Bohtori, ora adibita a ricovero per profughi. Guarda una foto di un cadavere scattata poche ore prima all’interno della sua aula e ammette: «Vedere i morti non mi fa più nessun effetto». Lo dice distrattamente, mentre offre ai suoi ospiti biscotti al pistacchio e tamarindo. È così che la vita va avanti ad Atme, tra un cadavere abbandonato in una scuola, una bevanda al gusto di dattero e il piccolo Ahmed, dieci anni, che sistema in un sacchetto una cinquantina di proiettili facendo le stesse smorfie labiali di chi, alla sua età, dovrebbe solo contare figurine. Perché la guerra fa parte della loro quotidianità e Facebook è un luogo dove scorrere le foto di amici morti per una granata, un proiettile; durante una manifestazione o magari caduti in battaglia. Prima di lasciare Atme, scorgiamo un gruppo di disertori passare una serata all’aria aperta tra chiacchiere e lunghe boccate di narghilè. Le ultime ore di svago prima di andare a combattere nell’inferno di Aleppo.
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