domenica 11 settembre 2016
Dopo le Torri Gemelle scattò la solidarietà. Ma oggi l'America si scopre sempre più divisa. Parla il figlio di un pompiere morto a Ground Zero, che oggi fa il poliziotto.
L'attacco agli Usa e i doveri della politica di Vittorio E. Parsi
11 settembre, i 15 anni della paura
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Liam Huczko a volte rimpiange l’11 settembre 2001. Anche se quel terribile giorno costò la vita a suo padre. No, non gli manca la sera prima degli attacchi, quando, ragazzino, salutò per l’ultima volta il padre Stephen, non sospettando che il turno di notte a Newark si sarebbe trasformato in una corsa folle verso il World Trade Center e nel sacrificio estremo. Non ha nostalgia nemmeno delle immagini dei crolli, viste in tv con la madre al fianco che tremava perché in cuor suo sapeva che il marito era lì, a dare una mano. E neanche i giorni di stordimento venuti dopo quando, a 13 anni, Liam si rese conto di essere “l’uomo di casa”, con tre fratelli e sorelle minori da consolare. È più tardi che il giovane ha cominciato a guardarsi attorno e a scoprire qualcosa di straordinario. Lui la chiama «unione » o anche «amore». Era una forza che non aveva mai provato. «C’era questa solidarietà, questo abbraccio collettivo. Nei confronti della mia famiglia, ma anche delle forze dell’ordine o di perfetti sconosciuti». C’erano nastri avvolti attorno agli alberi, bandiere nei giardini, file per donare il sangue, veglie di preghiera che occupavano interi isolati, applausi al passaggio dei camion dei pompieri. In quei momenti, a poco a poco, in Liam si fece strada l’idea che un giorno avrebbe indossato la divisa del padre Stephen, che nel frattempo, a 44 anni, era stato trovato sepolto tra le macerie insieme alla donna che stava cercando di portare fuori dalla torre B. Il sogno del giovane si è realizzato due anni fa, quando si è appuntato al petto lo stesso distintivo del padre, il numero 1.778. «Ero entusiasta di diventare un agente di polizia dell’Autorità Portuale – spiega oggi il 26enne – e sapevo di avere una responsabilità enorme per essere all’altezza del mio modello. Mio padre amava il suo lavoro. Voleva aiutare gli altri. Faceva il turno di notte per studiare infermieristica durante il giorno, e si era da poco laureato al Community College di Somerville». Per mesi Liam continuò a vedere attorno a sé esempi di coesione e di aiuto reciproco. Colleghi del padre che passarono settimane prima alla ricerca di sopravvissuti e poi a recuperare corpi a Ground Zero. Ma anche cittadini qualunque che venivano da altri Stati perché possedevano una gru, un cingolato, qualcosa che poteva essere utile ai lavori di sgombero. Fu la fede in quell’istinto umano di simpatizzare con la sfortuna del prossimo e di lavorare insieme per il bene comune che gli diede la forza di andare avanti, un settembre dopo l’altro, anniversario dopo anniversario.Finché, racconta, qualcosa cominciò a sfilacciarsi: «Non so, forse è iniziato tutto con le proteste di Occupy Wall Street nel 2011, forse prima». Quell’estate, la polizia di New York arrestò centinaia di manifestanti, molti dei quali accusarono gli agenti di averli malmenati. Per la prima volta, Liam vide la gente comune schierarsi dalla parte opposta delle forze dell’ordine, insultare chi indossava una divisa. «Fu uno choc. Ma poi è stato peggio. Ho visto che c’era un vero movimento nazionale di protesta contro la polizia, ho visto gli omicidi di uomini neri disarmati da parte di agenti e colleghi uccisi a sangue freddo per vendetta. Gli eroi che 15 anni fa avevano mollato tutto per buttarsi all’interno di due inferni di cristallo, ora, in molte comunità, erano visti come nemici. Liam trova questa metamorfosi difficile da digerire: «I nostri agenti si sentono accusati di violenza, come se fossimo tutti razzisti. Dopo la sparatoria del 7 luglio scorso a Dallas, che ha tolto la vita a cinque ufficiali, quasi nessuno ha legato nastri blu intorno agli alberi». Liam non nega i problemi che affliggono alcuni corpi di polizia. Ma si chiede perché gli americani non siano più disposti a mettersi nei panni degli uomini e delle donne in uniforme. E cita le parole del capo della polizia di Dallas, David Brown, che quest’estate ricordò che ai poliziotti viene chiesto di trovare soluzioni a situazioni sfuggite di mano molto prima che l’agente intervenga. «Dalla salute mentale alla povertà, dalla discriminazione dei neri all’immigrazione, ogni fallimento della società lo gettiamo sui po-liziotti, che lo affrontino loro – disse Brown ai giornalisti – ma la polizia non è mai stata pensata o addestrata per risolvere tutti questi problemi».Problemi che generano anche altre divisioni: razziali, economiche, politiche. Un sondaggio Gallup mostra che il senso di appartenenza nazionale degli americani ha toccato quest’anno il punto più basso dell’ultimo quarto di secolo. Un dato talmente preoccupante da aver spinto il presidente statunitense ad appellarsi all’orgoglio dei suoi concittadini. «Non possiamo seguire chi vorrebbe dividerci o reagire in una maniera che intacchi il tessuto della nostra società – ha detto ieri Barack Obama ricordando l’11 settembre –. Solo salvaguardando i nostri valori rispetteremo l’eredità di coloro che abbiamo perso». All’indomani della sparatoria Dallas, Liam, per un attimo, ha pensato di cambiare mestiere. Poi ha notato qualcosa. Il reparto di polizia della città texana, che soffriva cronicamente di mancanza di personale, per un paio di settimane ricevette 40 domande di arruolamento al giorno. Ancora una volta, una tragedia aveva avuto un risvolto positivo. «È un buon segno, ma fino a un certo punto – conclude –. Spero che non ci voglia un altro disastro per riportarci insieme».
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