domenica 26 maggio 2019
I pastori propongono ricette semplici per dare nuovo slancio al «sogno» dei padri fondatori». Ma l’istituzione «non può essere uno strumento di omologazione etica»
Mariano Crociat

Mariano Crociat

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Monsignor Mariano Crociata è vescovo di Latina Terracina-Sezze-Priverno, e ricopre anche la carica di vicepresidente della Comece, la Commissione degli episcopati dell’Unione Europea. In precedenza è stato vescovo di Noto e segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Ruoli ed esperienze privilegiati per fare il punto sulle elezioni del Parlamento Europeo. Prima di iniziare l’intervista il presule vuole fare una «premessa». «La Chiesa – ricorda – deve diventare sempre più capace di unire annuncio di fede e animazione culturale. Cioè di dare sostanza sociale e culturale alla fede. Ma questa dimensione sociale della sua presenza non deve essere mai senza riferimento alla motivazione da cui nasce. Altrimenti veniamo percepiti come agenti sociali che non rimandano a nulla. Diventando una Ong. Un rischio a cui Papa Francesco spesso ci richiama».

Eccellenza, con quali occhi guarda a questo importante appuntamento elettorale? Con preoccupazione, ma anche con fiducia. Per tante cause il sentimento antieuropeista è cresciuto negli anni, in questi ultimi tempi in particolare, a motivo delle tante difficoltà che la gente vive sulla propria pelle, a partire dalla crisi economica iniziata nel 2008, che si intrecciano con vicissitudini politiche nazionali. Il modo con cui è stata affrontata la crisi ha portato la gente a sentirsi abbandonata e quindi a cercare la risposta in formule sbrigative che poi non risolvono nulla. E di questo si è politicamente approfittato, in maniera non sempre corretta. La preoccupazione, quindi, non nasce dalle politiche populistiche, che meritano le loro critiche, ma dalla difficoltà che sia le politiche nazionali che quelle comunitarie hanno nel rispondere alle paure e ai bisogni della gente.

Quindi il populismo è un rischio ma anche un avvertimento? Senza dubbio. È un segnale di allarme di cui tener conto.

E in questo quadro la Chiesa cosa può fare? Qui viene la fiducia. Perché queste paure non riescono a cancellare un senso di appartenenza all’Europa, all’Unione Europea, di cui si scoprono gli aspetti positivi quando ci si riflette. Un esempio illuminante e pedagogicamente incisivo sono le convulsioni che sta vivendo il Regno Unito combattuto tra Brexit e non Brexit. Siamo in una fase così avanzata nel processo di unificazione che abbandonarlo crea più problemi di quanti ne risolve. Ciò offre spunti di fiducia perché ci dice che in fondo l’Europa è diventata importante per le singole nazioni. E in questo quadro il compito della Chiesa è quello di lanciare un messaggio, ai cittadini e ai governanti, su quali sono le attenzioni da avere e la direzione da prendere.

In concreto, quali sono le cose su cui le istituzioni europee dovrebbero puntare di più per venire incontro al disagio popolare? Innanzitutto meno burocratizzazione, meno autoreferenzialità, meno autosufficienza. Si ha l’impressione infatti che si sia creato un ceto che muove i fili quasi a prescindere dai vissuti, dalle storie e dalle dinamiche sociali dei popoli e delle nazioni. È una tendenza che non va. Sono necessarie strutture più snelle e una maggiore capacità di comunicazione e dialogo con le società, in modo che le sollecitazioni dal basso arrivino e abbiano una risposta adeguata. D’altra parte, servono mec- canismi grazie ai quali i popoli si sentano davvero protagonisti delle politiche europee.

In questo senso il principio di sussidiarietà, tanto caro alla dottrina sociale della Chiesa, dovrebbe trovare una maggiore applicazione… Certamente. In modo anche da salvaguardare la peculiarità delle nazioni, particolarmente in quegli ambiti e materie che devono essere lasciate alla loro autonomia, corrispondentemente alle sensibilità, alla coscienza, alla storia, alla cultura dei popoli.

Come, ad esempio, sui temi eticamente sensibili, che riguardano la vita e la famiglia… L’Europa non può essere strumento di omologazione etica. Non è il suo compito.

Maggiore attenzione alla sussidiarietà, comunque, non vuol dire meno integrazione. È così. Abbiamo bisogno però di una maggiore circolarità attiva a livello economico e politico. All’Europa non si può solo chiedere benefici, ma si deve anche dare, offrire il proprio contributo solidale. Penso ad esempio alla questione dei migranti, un ambito in cui l’Italia in tante circostanze è stata obiettivamente lasciata sola. L’Italia però ha da parte sua il dovere di cercare di governare questo fenomeno epocale e di non legiferare in modo emotivo, con soluzioni che solo formalmente tranquillizzano, ma non risolvono nulla.

Su questa tematica nella Comece c’è una posizione univoca? Ci sono sensibilità diverse. Nessuna parla in termini di rifiuto dello straniero. Ma alcune realtà hanno subito una emigrazione di massa e ora con l’arrivo massiccio di migranti si sentono minacciate nella loro identità. Per questo non è giusto giudicarle moralisticamente. Il Papa coniuga sempre il richiamo al dovere dell’accoglienza con l’invito ai politici di governare il fenomeno esercitando la virtù della prudenza.

Durante la campagna elettorale ha fatto molto clamore l’uso di simboli religiosi fatta da Matteo Salvini. Non giudico il cuore delle persone che solo il buon Dio conosce. Parlando in generale, questi usi di simboli cristiani mi sono sembrati manifestazioni folcloristiche intrinsecamente contraddittorie, perché si accompagnano a una pratica di vita secolarizzata, che di cristiano conserva poco o nulla. Mi ricorda un po’ il fenomeno degli 'atei devoti': non interessa cosa il cristianesimo in sé dice e chiede, ma una tradizione culturale cristiana. D’altra parte scandalizzarsi del fenomeno è troppo facile e non serve. Anzi, rischia di avere effetti controproducenti e non solo a livello politico.

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