mercoledì 30 marzo 2016
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Da 30 anni, l’ambigua definizione del reato mette a rischio soprattutto le minoranze Sarà disponibile tra pochi giorni il numero monografico di Atlantide, la rivista online della Fondazione per la sussidiarietà (http://atlantide.ilsussidiario.net/) diretta da Giorgio Vittadini, dedicato alla libertà religiosa. Propone contributi sulla situazione nel mondo islamico, la posizione della Chiesa cattolica e alcuni approfondimenti su Cina, Russia, Stati Uniti, India, Messico, Israele, Francia. Tra le “firme” ospitate nel numero, Carlo Cardia, Leonardo Sandri, Silvano Tomasi, Samir Khalil, David Rosen, Ibrahim Shamseddine,Wael Farouq, Bernardo Cervellera, Romeo Astorri, Andrea Pin, Andrej Desnickij, Michele Brignone, Mattia Ferraresi, Paolo Valvo. Di seguito proponiamo un estratto dell’articolo dedicato alla legge sulla blasfemia in Pakistan. «Chiunque profani, danneggi o dissacri volontariamente una copia del Sacro Corano in tutto o in parte o lo utilizzi per scopi illeciti è punito con il carcere a vita». «Chiunque offenda il nome o la persona del Profeta Maometto con parole, scritti o altre rappresentazioni è punito con la pena capitale ». Queste due sentenze, rispettivamente comma B e C dell’articolo 295 del codice penale pachistano, costituiscono quella che comunemente viene definita legge anti-blasfemia. L’articolo 295 è stato ereditato dalla legislazione introdotta nel 1860 dall’impero britannico per proteggere i sentimenti religiosi degli appartenenti a ogni credo. Ma sarà il generale Zia ul Haq a introdurre, nel 1982 e poi nel 1986, i commi B e C. È importante notare come con l’aggiunta dei due commi l’articolo perda la funzione di tutelare le offese a qualsiasi religione e si caratterizzi principalmente come una difesa della fede islamica. Manca inoltre una definizione dettagliata del reato, elemento che presta il fianco ad un’ampia discrezionalità giuridica. Non è un caso, dunque, se dalla nascita del Pakistan nel 1947 al 1986 si sono registrati solo sei casi di blasfemia, mentre in seguito all’introduzione dei commi B e C se ne contano oltre 1.400. Questo perché la “legge nera” si presta a un uso improprio. La norma colpisce tutti i cittadini ma è impossibile non notare come vi sia una netta sproporzione tra la fede degli imputati e la composizione religiosa della popolazione. Secondo i dati della Ong Awaze- Haq Ittehad, le 1.438 accuse di blasfemia registrate dal 1987 a fine 2014 sono state rivolte a 633 musulmani, 494 ahmadi, 187 cristiani e 21 induisti. Quindi oltre il 50 per cento delle accuse sono state ai danni di non musulmani, in un Paese dove gli appartenenti alle minoranze religiose rappresentano solo il 4 per cento della popolazione. È sufficiente un’accusa, che si ritiene falsa in circa il 95 per cento dei casi, perché una persona possa essere arrestata. La norma non prevede l’onere della prova da parte dell’accusatore: sta al presunto blasfemo provare la sua innocenza. Celebre il caso di Asia Bibi, madre di cinque figli condannata a morte nel 2010 con l’accusa di aver insultato Maometto, soltanto in base alle dichiarazioni di alcune donne musulmane, peraltro presentate alla polizia diversi giorni dopo l’accaduto. Nella maggior parte dei casi di blasfemia, a decidere l’apertura di un’indagine e l’esito di un processo è la forte pressione esercitata sulle forze di polizia e sui giudici dei tribunali di primo grado, minacciati e talvolta uccisi. Il 2 marzo 2011 è stato ucciso anche il ministro federale per le minoranze religiose Shahbaz Bhatti, cristiano, assassinato per aver messo in discussione la legge sulla blasfemia ed essersi speso in favore della liberazione di Asia Bibi. A Bhatti era stato chiesto di valutare alcune modifiche da apportare alla norma, ma cambiare la legge sulla blasfemia sembra quasi impossibile, a causa della enorme pressione sociale e soprattutto dei fondamentalisti. Non mancano vittime anche tra i musulmani che coraggiosamente si sono opposti alla legge. Nel gennaio 2011, Salman Taseer, governatore del Punjab, è stato ucciso dalla sua guardia del corpo per aver definito la norma «legge nera» e per aver chiesto ufficialmente il proscioglimento di Asia Bibi. Il suo assassino, Mumtaz Qadri, è da molti considerato un eroe per aver «giustamente ucciso un blasfemo». A causa della forte pressione sociale il governo del Pakistan ha atteso a lungo prima di metterlo a morte, il 29 febbraio scorso. Dopo l’esecuzione, sono seguite proteste in tutto il Paese alle quali l’attentato di Pasqua al parco di Lahore è strettamente legato. Sono numerosissimi gli omicidi extra giudiziali dei presunti blasfemi, spesso linciati da folle infuriate, il più delle volte aizzate da leader fanatici musulmani. Non è, inoltre, raro che, a seguito di accuse di blasfemia, avvengano veri e propri massacri, specie se il presunto blasfemo appartiene a una minoranza religiosa. Perché, come fa notare Shahid Mobeen nel volume “Legge della blasfemia e libertà religiosa. Il caso della Repubblica islamica del Pakistan”, «quando l’accusa viene mossa contro un cittadino di fede islamica, è il singolo a subirne le conseguenze, mentre quando viene incriminato un cittadino di altra fede religiosa, il rischio è che a pagare sia l’intera comunità di appartenenza». Come è accaduto nel 2013 a Joseph Colony, il quartiere cristiano di Lahore ridotto in cenere da una folla di tremila musulmani alla ricerca del presunto blasfemo Sawan Masih, accusato di aver insultato Maometto. Gli 83 uomini ritenuti colpevoli dell’attacco a Joseph Colony sono stati tutti rilasciati su cauzione, mentre il cristiano Sawan Masih è stato condannato a morte per blasfemia. Un altro tragico esempio è il caso di Shahzad e Shama Masih, i due coniugi cristiani che il 4 novembre 2014 sono stati bruciati vivi assieme al figlio che la donna portava in grembo nella fornace di mattoni in cui lavoravano. L’episodio mette in luce un’ulteriore difficoltà legata all’applicazione del comma B dell’articolo 295. Nonostante nel testo sia specificato che l’eventuale profanazione del Corano debba essere volontaria, in sede di giudizio non si tiene conto dell’intenzionalità dell’accusato. È sufficiente che una copia del Corano scivoli accidentalmente dalle mani di una persona perché questa possa essere accusata di blasfemia, così come è sufficiente calpestare una pagina di giornale sulla quale sono riportati dei versetti del Corano: un’eventualità non così remota in un paese in cui quotidiani, riviste e cartelloni pubblicitari spesso riportano versi in arabo del libro sacro islamico. L’analfabetismo non costituisce un’attenuante e nemmeno la mancata conoscenza della lingua araba, che in Pakistan è compresa da meno del 5% della popolazione. © RIPRODUZIONE RISERVATA Scontri tra paramilitari e sostenitori degli islamisti a Islamabad (Ansa/Ap)
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