lunedì 23 luglio 2012
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Il piccolo corpo di Lilly posa quieto sopra un cuscino a strisce viola e marroni. Il suo viso risplende di gioia non appena qualcuno si avvicina toccandole la pancia, ma si rattrista immediatamente quando vede la gente partire. Lilly, a diciotto mesi, non può alzarsi da terra. La sua colonna vertebrale è probabilmente lesa, per questo, al contrario dei suoi coetanei che corrono in ogni direzione, la piccola è costretta a rimanere sdraiata tutto il giorno. Quello di Lilly è stato probabilmente il viaggio più lungo e faticoso di tutti i rifugiati che sono partiti dal Nord del Mali, una vasta regione travolta da guerra e siccità, per raggiungere il campo di Mbera, a Est della confinante Mauritania. «Non sappiamo quale sia il suo problema» dice ormai rassegnato Abdel, il padre della bambina, che è arrivato con la sua famiglia dalla città di Timbuctu: «L’abbiamo portata nei centri sanitari del campo ma non sanno darci una spiegazione. Ormai siamo in attesa solo di un miracolo». Nella tenda accanto, Ismael aiuta la mamma e la nonna ad alzarsi. Entrambe faticano a camminare. Dopo un viaggio durato diversi giorni in mezzo al deserto saheliano iniziato nella regione di Kidal, a Nord-est del Mali, le loro gambe non riescono più a sopportare il peso del pur esile corpo. Ismael a soli nove anni si prende cura delle donne che suo padre ha dovuto lasciare qualche giorno prima per andare a cercare lavoro nella capitale mauritana, Nouakchott. Si possono sentire storie simili a queste per tutto il campo di rifugiati di Mbera, dove oltre 91mila profughi del Mali hanno trovato rifugio. Ma la situazione sembra complicarsi giorno dopo giorno perché gli arrivi non si fermano. La stagione delle piogge è iniziata e la notte prima ha reso impraticabile la strada di diciassette chilometri che dalla cittadina di Bassikounou arriva al campo. Molti mezzi che trasportano operatori umanitari e aiuti, sono rimasti impantanati a causa delle profonde pozze d’acqua che si sono formate dentro e fuori Bassikounou. Ma dicono i vecchi del villaggio il peggio deve ancora arrivare. «Centinaia di persone hanno dormito sotto la pioggia e nel fango ieri notte», dice Habiba, volontaria per Intersos, un’organizzazione umanitaria italiana che opera in Mauritania dal 2009: «La gente continua ad entrare nel campo e le tende non bastano». Le agenzie umanitarie hanno più volte lanciato l’allarme sulle conseguenze della crisi in Mali, Paese tuttora incapace di trovare una soluzione politica e umanitaria concreta. I fondi per affrontare in modo adeguato il flusso di rifugiati in Mauritania, Niger e Burkina Faso tardano ad arrivare e le condizioni in cui versano i campi possono aggravarsi rapidamente. Si fatica a trattenere le lacrime. Negli ultimi giorni sono morte diverse mamme dopo il parto e hanno lasciato i loro bambini senza il latte, uno dei prodotti alimentari che le agenzie umanitarie hanno difficoltà a distribuire. Alcuni volontari, infatti, hanno iniziato a pagare di tasca propria razioni di latte da somministrare ai neonati più a rischio. Mohamed, invece, è una giovane guida turistica che nel fuggire da uno dei villaggi della provincia di Gao ha subito un grave incidente stradale. Ora sta perdendo la vista, l’uso della parola e può muoversi solo se sorretto da qualcuno. «Dicono che cadendo dal cassone della jeep su cui viaggiavo, ho preso un duro colpo alla testa – racconta cercando di controllare il tremore delle labbra e mettendosi le mani davanti agli occhi – io però non ricordo più nulla». Una famiglia di rifugiati si sta prendendo cura di lui: lo vestono, gli danno qualcosa da mangiare e lo portano in bagno quando Mohamed riesce a trovare la forza e il coraggio per alzarsi. Secondo le Nazioni unite, circa 4,6 milioni di persone, tra cui 700mila bambini sotto i cinque anni, sono colpiti dalla insicurezza alimentare e dalla crisi nutrizionale in Mali. I conflitti interni, la scarsità dei raccolti divorati da sciami di cavallette, l’arrivo della stagione delle piogge e l’innalzamento dei prezzi alimentari, rappresentano una combinazione fatale per le popolazioni del Sahel. Sempre in Mali, oltre un milione di bambini combattono contro il rischio di malnutrizione acuta grave, mentre più di 1,5 milioni di persone sono a rischio colera. Chi ha i mezzi per fuggire, fugge. «Nonostante le ovvie difficoltà nel gestire tale emergenza – afferma Ahmed, uno dei leader delle comunità araba – passo dopo passo le condizioni nel campo stanno migliorando rispetto a marzo, quando è iniziata la crisi». I rifugiati sono scappati da quello che spesso definiscono «l’inferno in terra». Nel Nord del Mali, infatti, i combattimenti delle ultime settimane tra il Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla) e i militanti islamici di Ansar Dine (difensori della fede), al-Qaeda per il Maghreb islamico (Aqmi) e il Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale (Mujao), stanno svuotando tanto i piccoli villaggi, quanto le città più popolate della regione. «L’unica soluzione è un intervento militare – assicura Hassan, un capo della comunità tuareg che risiede a Nouakchott –. Dobbiamo fare in modo di riprendere la nostra terra il prima possibile». Non tutti però sono d’accordo. «Abbiamo bisogno di accordi diplomatici, soprattutto con l’Algeria – afferma un altro tuareg –. Ci sono altissimi interessi economici in gioco che devono essere affrontati con soluzioni pacifiche». Molti, infatti, temono che un intervento militare, da parte dei ribelli tuareg e dell’esercito maliano assistito da potenze straniere, possa innescare una catena di eventi difficile da controllare, mettendo in pericolo le vite dei civili e degli operatori che li stanno assistendo. Attualmente, circa trecento profughi al giorno continuano ad arrivare al campo di Mbera, e le cifre sono destinate ad aumentare. Il governo mauritano ha infatti appena approvato la costruzione di un altro campo che, a partire da domenica, potrà ospitare altri novantamila disperati.
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