venerdì 27 maggio 2011
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È stato l’ingegnere della pulizia etnica. Ratko Mladic l’ha teorizzata mettendola poi in pratica contro i musulmani di Bosnia durante il conflitto degli anni Novanta. A Sarajevo, Srebrenica, in molti villaggi e città della Bosnia. Sradicare civili dai villaggi, espellerli dal territorio «serbo». La sua è un’avversione profonda per i popoli non-serbi del mosaico jugoslavo. Ha solo due anni quando nel 1944 gli ustascia croati filo-fascisti uccidono suo padre. Il suo disegno chiaro di vendetta viene covato a lungo. Lui intanto obbedisce ai suoi superiori tra le fila dell’esercito jugolsavo di Tito, fino a diventarne un ufficiale. Ma la Jugoslavia inizia a sgretolarsi nel 1991 e Mladic viene subito incaricato di guidare le forze federali in Krajina contro i croati. L’anno dopo si sposta a Sarajevo, dove diventa generale del secondo distretto militare serbo. Mentre lo psichiatra Radovan Karazdic inizia a berciare i suoi proclami sull’indipendenza dei serbi di Bosnia e se ne autoproclama presidente, Mladic assume il comando dell’esercito. È il maggio 1992. Le dichiarazioni intrise di folle nazionalismo si trasformano immediatamente in azione militare. Inizia l’assedio di Sarajevo, il più lungo dopo la Seconda guerra mondiale. Per oltre mille giorni gli aguzzini di Mladic bombardano la città più multietnica del Paese. Verranno uccisi, in tutto, oltre 10mila civili, in gran parte musulmani ma non solo. La nascente armata serbo-bosniaca si organizza, contando anche sull’appoggio delle forze speciali serbe inviate da Belgrado su ordine di Slobodan Milosevic. Numerose località ed enclave musulmane della Bosnia vengono attaccate e prese d’assedio. Il concetto di «pulizia etnica» – a questo punto – non è più solo una teoria. Decine di migliaia di civili sono costretti ad abbandonare i propri villaggi, in totale saranno oltre 2 milioni i profughi alla fine del conflitto. A Sarajevo il bagno di sangue è quotidiano. La città diventa una gigantesca prigione a cielo aperto, messa in trappola dagli uomini di Mladic. Che dalle alture martellano senza pietà bambini che giocano sulla neve o donne in fila con una tanica d’acqua. Nel 1995 le milizie serbo-bosniache si macchiano dei peggiori massacri in Bosnia orientale. A luglio gli sgherri di Mladic circondano Srebrenica, in teoria un’enclave protetta dall’Onu. Oltre 25mila civili fuggono a piedi dalla città cercando riparo in una fabbrica alla periferia. Lì, a Potocari, c’è la base dei soldati olandesi delle Nazioni Unite. «Un = United nothing», stava scritto ancora anni dopo sul blocco di cemento all’entrata della base. I caschi blu non oppongono resistenza. Mladic offre il suo volto arcigno alle telecamere internazionali mentre consegna caramelle ai bambini musulmani. «Prendevano tutti gli uomini, anche ragazzini di 12 e 13 anni» racconta Ramiza Begic. Suo figlio era tra questi. Separati dalla famiglie e poi eliminati sistematicamente. Anche i vecchi di 70 anni e più. Altri uomini tentarono la fuga nei boschi, per raggiungere i territori «liberati» sotto controllo della 28esima divisione musulmana. Erano almeno 13-14mila. I due terzi furono falcidiati dalle milizie di Mladic. Ecco perché l’appellativo di «boia di Srebrenica» sembra non bastare nemmeno. Basta pensare ai duecento musulmani che si arresero dopo l’ingannevole offerta dei serbo-bosniaci di consegnarli «prigionieri» alla Croce Rossa internazionale. Era una trappola mortale: portati in un deposito vicino al villaggio di Nova Kasaba vennero tutti trucidati tranne uno. Stesso destino per gli altri catturati: uccisi in diversi luoghi a nord di Srebrenica tra il 13 e il 17 luglio. I morti furono tra i 7.500 e gli 8mila. Poi gettati in almeno 45 fosse comuni. Molti dei loro resti vennero successivamente sparpagliati con i caterpillar in altre buche. Per occultare i corpi e provare a cancellare le prove. Non è servito. Nella sentenza di genocidio contro uno dei luogotenenti di Mladic, i giudici del Tribunale internazionale dell’Aja sull’ex-Jugoslavia, hanno scritto con chiarezza che quelle persone furono «strappate dalla pagine della storia».
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