lunedì 19 agosto 2013
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Una bambina con i capelli ingialliti (chiaro sintomo di denutrizione), accovacciata a terra, lava una ciotola di metallo in un rigagnolo d’acqua nera. I corvi di Calcutta le fanno compagnia, becchettando fra la spazzatura. Scatta il flash. La turista ha colto un pezzo di quella “realtà” che cercava, lontana dalle cartoline di Jaipur. Ma serve veramente a qualcosa osservare la miseria o è si rischia di uscire dalle bidonville senza aver imparato nulla? Li chiamano «tour della povertà» e secondo gli esperti i primissimi sorsero nella Londra vittoriana oltre 150 anni fa, quando i nobili più ricchi si affacciavano nei quartieri popolari per vedere come vivevano gli «altri». Stessa scena, a fine Ottocento, anche a New York: i benestanti erano incuriositi dalle masse del Lower East Side. Molti lo considerano uno strumento per prendere coscienza della povertà e aiutare i più sfortunati, anche perché nei casi più seri i proventi turistici vengono reinvestiti nella stessa comunità. Altri pensano invece sia solo l’ennesimo sfruttamento economico degli ultimi e temono che l’indifferenza non venga infranta nemmeno dall’esperienza diretta, quasi fosse possibile banalizzare la visita a una favela, inserendola fra una spiaggia esotica e un bel museo. La chiave sta nel rispetto della dignità di chi vive nelle baraccopoli. Tra polemiche e dibattiti, il cosiddetto “poorism” (“poverty tourism”) si allarga in tutto il pianeta. Ora il fenomeno è arrivato anche in Europa.
1. Nel cuore della Germania.«Vedere Berlino con occhi diversi». L’Ong “Stadtsichten” (Vedute della città) organizza un tour veramente differente per conoscere i luoghi dove “abitano” i senza tetto, per rimuovere i pregiudizi e aiutare a capire. I protagonisti non si vedono: «Questa non è una visita allo zoo» ha detto alla Berliner Zeitung Carsten Voss, 54 anni, un tempo manager di azienda, trasformato in clochard da una crisi e una forte depressione. Ora non dorme più sulle panchine, e guida i turisti che vogliono conoscere l’altra Berlino, quella resa invisibile dall’indifferenza. In tutta la Germania sono oltre 280mila, ma nella capitale tedesca si concentra quasi il 10 per cento dei senza fissa dimora: 10mila vivono fra parchi e ostelli e circa 24mila non hanno un domicilio registrato. La capitale tedesca non è affatto insensibile al problema. Offre loro letti, pasti caldi, bagni pubblici, assistenza medica e anche veterinaria (spesso sono accompagnati da amici a quattro zampe). Chi rifiuta qualsiasi struttura, però, torna sempre alla panchina. O – molto peggio – alla stazione Zoologisher Garten, al centro dello spaccio di droga. La cancelleria federale ha assegnato al progetto – che si chiama “Querstadtein” – un premio all’impegno sociale.
2. Anche questa è Rio. Rocinha è la più nota, ma a Rio de Janeiro esistono oltre mille favelas, dove vive il 20 per cento della popolazione. In Brasile il «turismo sociale» non è una novità: va avanti da anni. Vista spettacolare di Rio, incontro con le artigiane locali, pranzo insieme una famiglia che racconta la sua vita quotidiana. La domanda turistica aumenta e le autorità hanno pensato anche in qualche corso di formazione alberghiera per aiutare gli abitanti a creare i propri bed & breakfast. La sicurezza è il punto nevralgico di queste visite: gli organizzatori assicurano che sono tranquille. Ma in alcune favelas di Rio non si può entrare.
3. A Mumbai, dopo l’Oscar.Le otto statuette vinte nel 2009 dal film “The Millionaire” hanno acceso l’interesse dei turisti per gli slum della megalopoli indiana, in particolare a Dharavi. Anche qui è possibile visitare la bidonville con Ong che garantiscono la devoluzione di un 80 per cento degli introiti a programmi sociali, ma secondo gli abitanti non è tutto oro quello che luccica: fioccano le critiche contro la strumentalizzazione dell’immagine dei più poveri. Macchine fotografiche e telecamere non sono sempre bene accette.
4. La baraccopoli più grande dell’Africa.Kennedy Odede ha vissuto per 23 anni a Kibera, a Nairobi (capitale del Kenya): è lo slum più popoloso di tutto il continente, con quasi 1 milione di abitanti. Il responsabile dell’Ong “Shining hope for communities” è contrario al «turismo della povertà»: tre anni fa la sua opinione pubblicata dal New York Times ha fatto il giro del mondo. Il suo timore è che «il turismo nei bassifondi trasformi la povertà in intrattenimento, in qualcosa che si può sperimentare provvisoriamente per poi sfuggirne». Quella di Odede è una delle tante voci in questo dibattito internazionale. All’origine non c’è solo la curiosità del turista, ma spesso si tratta veramente di compassione: cum patior soffrire con. Purché non resti tutto lì, in uno scatto fotografico.
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