sabato 17 aprile 2021
Verso il vertice globale sull’ambiente, con l’inviato Kerry a caccia di risultati
Xi Jinping, su un maxi-schermo a Pechino, durante il summit sul clima con Angela Merkel ed Emmanuel Macron

Xi Jinping, su un maxi-schermo a Pechino, durante il summit sul clima con Angela Merkel ed Emmanuel Macron - Reuters

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Giorni importanti per il futuro della Terra. In attesa del supervertice del 22 aprile voluto da Biden – al quale dovrebbero partecipare oltre 40 capi di Stato e di governo, compresi Draghi, Putin e Xi Jinping – ieri il leader cinese ha partecipato al minivertice online con la cancelliera Merkel e il presidente francese Macron. «Affrontare il cambiamento climatico è compito comune dell’umanità – ha detto Xi – non dovrebbe essere usato come una scusa per lo scontro geopolitico, per attaccare altri Paesi o imporre tariffe commerciali».
Ed è proprio di questo che da un paio di giorni, a porte chiuse, stanno discutendo l’inviato speciale del presidente Biden per il clima, il «triste e perdente» John Kerry (che stavolta potrebbe finalmente passare alla storia, dopo la non certo inebriante esperienza di segretario di Stato e la cocente sconfitta contro Bush del 2004) e il “vecchio” (in effetti è stato richiamato dalla pensione, e c’è un motivo ) Xie Zhenhua, vivace e capace rappresentante di Pechino a ben tre conferenze sul clima (Copenhagen 2009, Cancun 2010, Durban 2012). I cinesi non invitano a casaccio: dopo lo showdown (più mediatico che politico) di Anchorage, quando nel corso del primo incontro ufficiale sono volati – almeno verbalmente – gli stracci, questa visita è stata fortemente voluta da Pechino.
La Cina sembra molto interessata a verificare la strategia non dichiarata ma nei fatti già avviata della nuova amministrazione Usa: tavoli separati. Posto che con la Cina bisogna fare i conti, inutile e pericoloso per tutti prenderla di petto come aveva fatto, negli ultimi tempi, e senza grande successo, Trump. Meglio affrontare le questioni separatamente, e con “armi” diverse. Intransigenza sui diritti umani dunque (e Biden ha già dimostrato di avere più coraggio del suo predecessore nel denunciarne le varie violazioni), ripresa degli scambi commerciali (nel primo trimestre di quest’anno già in netto aumento, nonostante i dazi siano ancora in vigore) e impegno comune per quanto riguarda l’ambiente. Ed è proprio su questo tema, che riguarda e preoccupa tutto il mondo, che Stati Uniti e Cina, i due Paesi più potenti e più inquinatori potrebbero nei prossimi giorni annunciare di aver raggiunto un accordo, di assumere assieme l’impegno ad accelerare la corsa verso la cosiddetta neutralità carbonica. Pechino in realtà l’ha già annunciato: emissioni zero entro il 2060, «forse anche prima». Gli Usa non ancora, ma potrebbero farlo proprio nei prossimi giorni, se i colloqui tra Kerry e Xie avranno successo. Tra i vari primati che gli Stati Uniti hanno perso negli ultimi anni c’è anche quello dei Grandi Inquinatori, oggi saldamente nelle mani della Cina. Circa il 30% delle emissioni di anidride carbonica sono Made in China. Circa il doppio di quelle prodotte dagli Usa e 30 volte quelle del Regni Unito. Attenzione però, perché buona parte di queste emissioni sono prodotte “per conto terzi”: da industrie che producono per l’Europa e gli Usa. Diciamo che i cinesi negli ultimi decenni hanno respirato e continuano a respirare la peggiore aria del pianeta per consentire a noi “occidentali” di respirarne una migliore.
È il prezzo che da sempre pagano i cosiddetti Paesi in via di sviluppo, e la Cina, lo ripete sempre anche Xi, è il più grande Paese in via di sviluppo. Ma è anche un Paese dove le cose possono cambiare in fretta, e dove il potere di farle cambiare è saldamente in mano al governo. Nel bene e nel male, verrebbe da dire. Perché se è vero che per certi versi è ancora un Paese un via di sviluppo, è anche vero che la Cina è una superpotenza dalla quale non si può prescindere, e non tanto per il suo arsenale militare – forse sopravvalutato – quanto per quello finanziario, con l’ampia sottoscrizione del debito pubblico Usa (e di recente l’offerta di estenderla anche a quello russo) e per la sua sempre più estesa influenza politica. Basti pensare al ruolo che ha nel tenere a bada il regime nordcoreano e quello che potrebbe esercitare per risolvere la tremenda crisi birmana.
Ma anche alla sua “presenza” sempre più incisiva in Africa e Sudamerica. Così, se per Trump la crisi climatica era un tranello cinese (ed europeo) dal quale uscire twittando dall’accordo di Parigi e bruciando più carbone, per Xi è giunto forse il momento di dimostrare il suo potere e metterlo a disposizione del mondo intero, “suggerendo” al suo governo di dare priorità al pianeta. Se accadrà, sarà anche un po’ merito del «triste» Kerry, sul cui volto, nei prossimi giorni, potrebbe finalmente spuntare un sorriso.


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