giovedì 3 agosto 2017
Nell’agosto del 2014, il mondo scopriva una minoranza di cui nessuno sapeva scrivere correttamente il nome. La notizia della loro esistenza è coincisa con quella del loro genocidio
Gli yazidi scampati al Daesh restano in ostaggio del nulla
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Nell’agosto del 2014, il mondo scopriva una minoranza di cui nessuno sapeva scrivere correttamente il nome. La notizia della loro esistenza è coincisa con quella del loro genocidio. Ma il massacro di questo popolo, diventato simbolo delle atrocità jihadiste, non ha ricevuto condanne adeguate. Ancora non si sa nulla di tremila rapiti. Mentre i sopravvissuti sono prigionieri del silenzio internazionale. E dell’ambizione curda

I morti yazidi non riposano. Né fanno notizia i teschi e le stoffe sbiadite che emergono dal terreno nelle zone abbandonate dal Daesh in fuga. Hussein Qasim Hassoun è compìto, ma si tocca i baffi neri e scrolla le spalle. Fa parte dell’“Alta Commissione per il riconoscimento del genocidio yazida” del Kurdistan iracheno. Ammette che il gruppo, attraversato da «interessi personali, partigianerie e sospetti di corruzione», non è riuscito a «internazionalizzare» la causa yazida. Le fosse non sono state protette. «Illegali» certe procedure di raccolta dati. Il dossier sul genocidio di Shingal «è quasi morto». Gli yazidi, però, sono come le canne di Blaise Pascal, dotati di quella nobiltà che appartiene solo a chi sostiene, nella consapevolezza della fragilità, l’accanimento cieco dell’’Universo.

Tre anni fa il mondo scopriva una minoranza di cui nessuno sapeva scrivere correttamente il nome: yazidi, ezidi, yezidi. Gli occhi finivano su templi bianchi con il tetto a cono, alla cui ombra sostava, un tempo, gente grata e pacifica. Una storia fatta di musica e racconti, di crocicchi di culture e religiosità, tutte cordialmente tollerate ma tenute delicatamente equidistanti. Una popolazione con il tabù dell’insalata lattuga (che per un’antica tradizione non possono mangiare); la “comunità” come “casa” della propria identità; un Angelo-pavone a sorreggere il cerchio millenario del bene e del male.


La notizia della loro esistenza è coincisa con quella del loro eccidio in corso, il 3 agosto 2014. Un massacro “certificato” dalle immagini degli elicotteri americani che tiravano a bordo donne con gli abiti colorati a strati e bambini biondi terrorizzati: 450.000 persone in fuga dai villaggi a Shingal, montagna-bastimento in navigazione tra Siria e Kurdistan iracheno. Daesh aveva attaccato Sinjar città, dopo aver preso Mosul e la Piana di Ninive. E per due settimane ha massacrato uomini che non volevano convertirsi e donne anziane, punteggiando l’area di oltre 70 fosse comuni e istituzionalizzato la schiavitù sessuale di ragazze e bambine, elevandola a personale atto di culto, secondo una sharia buona solo per fanatici da invogliare alla guerra. «Ci sono enti e Ong che raccolgono materiale come abbiamo fatto noi. Dovremmo mettere tutto insieme», spiega Hassoun. Ma l’Iraq non ha firmato lo Statuto di Roma che riconosce il Tribunale internazionale. L’Onu ha pianto per la parola «genocidio» e i racconti di Nadia Murad, ma nulla è arrivato all’Aja. Sono 6.740 le donne e i bambini fatti prigionieri, 3.410 quelli liberati: stanziali negli appartamenti delle città curde i ricchi; nei campi profughi i poveri.

Gli altri tremila “vivono” nelle foto sui cellulari che le famiglie tengono stretti. Oppure nelle immagini che i contrabbandieri riescono ad avere girando da una prigione all’altra. Nessuno salva le 3.000 «schiave» a Raqqa, Deir ez-Zor, Tal Afar. «Il 90% vorrebbe trasferirsi in Europa e negli Stati Uniti perché non c’è speranza di vivere in pace e fidarsi delle forze di sicurezza», spiega il giornalista e attivista Saad Babir. È quello che scongiurano i capi tribù e i leader religiosi di Lalish, il più importante santuario yazida. Ma i villaggi sono distrutti e ogni arabo è ormai un nemico. Meno di 3.000 persone sono tornate a Shingal. Vorrebbero un governatorato per loro e uno a Ninive per i cristiani.


Orgogliosamente guardano le spianate riarse dove sono tornate le greggi, le poche con qualche parabola satellitare; le bandiere delle sigle combattenti curde che dal check-point sopra il Tigri, dopo Dohuk, si sfidano ogni cento metri sulle strade a 50 gradi, da Rabia fino verso le macerie di Sinjar. Sono in lotta Peshmerga Krg, Pkk, Roj Peshmerga, Ypg e truppe sciite. Ma liberata Mosul e Ninive, il mondo guarda a Raqqa, e le rivalità curde e questo popolo giunto al 74°genocidio sono folclore dentro il referendum per l’indipendenza da Baghdad: il “conto” presentato dal Kurdistan iracheno per gli sforzi contro il Daesh. Corteggiando gli yazidi, a cui viene offerta la “curdità” in cambio di sicurezza. Gli yazidi vorrebbero decidere del loro futuro. Chiedono, si dividono, e rimangono deboli.

Il principe della famiglia reale, Breen Tahseen, sorride amaro: «I curdi non si definiscono curdi-musulmani. Si definiscono curdi e basta. Noi abbiamo la nostra religione, “siamo” una religione. Dire “sono yazida” è sottintendere radici e storia. E se non ci fossero stati conflitti con i musulmani, saremmo ovunque. Forse, potremmo anche essere noi i veri curdi».



CRONOLOGIA

3 agosto 2014
All’alba, l’attacco a tenaglia
Nelle prime ore del 3 agosto 2014, con un attacco a tenaglia da sud della città di Sinjar, dalla Siria e da est – dove a fine giugno erano state occupate Mosul e la Piana di Ninive e proclamata la nascita del cosiddetto Stato islamico – gli uomini di al Baghdadi assaltano i villaggi intorno alla montagna di Sinjar L’esercito iracheno e i Peshmerga curdi si ritirano. Per giorni avvengono esecuzioni di massa, rastrellamenti, torture.

6 agosto
I massacri, l’occupazione
Il 6 agosto a Kojo, villaggio simbolo del genocidio yazida, vengono uccise in un solo giorno 600 persone. In tutta l’area si muovono 450.000 civili in fuga. Sono yazidi, cristiani, turcomanni, shabak, kakais,
in parte diretti verso il Kurdistan, in parte verso la montagna del Sinjar. Qui gli yazidi rimangono bloccati senza cibo e acqua per settimane. I combattenti curdi siriani e Pkk aprono una via di fuga, presto riconquistata da Daesh.

Inverno 2014
La controffensiva
Inverno 2014: molti yazidi imbracciano le armi, guidati da Qasim Shosho e addestrati da Peshmerga, Pkk e Ypg. Una guerra di resistenza combattuta sulle alture e sostenuta dalla Coalizione internazionale. Molti templi vengono distrutti, le case vengono occupate e minate. Muoiono centinaia di bambini rimasti sulla montagna, per il freddo e gli stenti. Un villaggio alla volta, Daesh arretra.

16 novembre 2015
Inizia la liberazione
Il 16 novembre 2015 i curdi liberano Sinjar: 70 gli obiettivi bombardati dalla Coalizione. La città e i villaggi sono rasi al suolo. Iraq, Peshmerga, gli sciiti di al-Hashd al-Shaabi riconquistano i villaggi della piana di Ninive fino ad arrivare alle porte di Mosul. Il 9 luglio 2017 il premier iracheno Haydar al-Abadi annuncia la liberazione di Mosul. Secondo alcune fonti, la battaglia è costata 40mila morti.

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