venerdì 1 aprile 2016
Lo studio del Royal College of Physicians ha portato alla luce le carenze del sistema sanitario a due anni dall'eliminazione del «Protocollo Liverpool» sulla sospensione delle cure. «Molti pazienti abbandonati a se stessi»
Per i malati terminali soltanto 16 ospedali
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«Pazienti in fin di vita abbandonati a se stessi, spesso senza accesso a cibo o acqua e il più delle volte privati delle cure fondamentali che servono per alleviare gli ultimi momenti della loro esistenza». La situazione negli ospedali del Regno Unito non è cambiata molto da quando il governo di David Cameron ha deciso, un paio di anni fa, di abolire il Liverpool Care Pathway (Lcp), il controverso protocollo per il fine vita studiato per «aiutare i pazienti ad affrontare con serenità e senza dolore le ultime ore», ma che in realtà si era limitato nella maggior parte dei casi a offrire sedativi e sospendere medicine, alimentazione e idratazione.  Nel 2012, riportava il Guardian, fino a 60mila pazienti, ogni anno, venivano messi in lista per il Lcp, senza esserne informati e con un terzo delle rispettive famiglie all’oscuro di tutto. «Da quando il Protocollo Liverpool è stato sospeso negli ospedali – spiega ad Avvenire Adrian Tookman, direttore dell’ente di carità Marie Curie – ci sono stati dei miglioramenti palesi. L’attenzione dello staff addetto alle cure palliative si è spostata più sui bisogni individuali del paziente, ma c’è ancora molta strada da fare». Ieri un Rapporto sul fine vita, pubblicato dal Royal College of Physicians, il primo commissionato dal governo da quando il Lcp è stato abolito, ha rivelato che ancora oggi la stragrande maggioranza degli ospedali del regno sono «inaffidabili» quando si tratta di offrire al paziente le dovute cure palliative. Solo sedici, infatti, dei 142 ospedali analizzati hanno dimostrato di saper far fronte alle necessità dei pazienti in fin di vita. Negli altri casi la situazione è rimasta tale e quale a due anni fa. È infatti ancora molto comune, per esempio, da parte dei medici prendere la decisione di non rianimare un paziente in fin di vita o di sospendere la somministrazione di acqua e cibo senza averne discusso con lui o con i familiari. Julie Coombe, 33 anni di Plymouth, ha raccontato qualche giorno fa del- la dolorosa decisione di dover portare il padre in fin di vita via dall’ospedale: «I medici lo ignoravano completamente. Sono venuti a visitarlo solo per cinque minuti e per dirgli che sarebbe morto nel giro di pochi giorni. Non gli hanno offerto alcuna cura e a noi familiari nessun tipo di sostegno». Sam Ahmedzai, che ha guidato la ricerca del Royal College of Physicians, ha spiegato ieri che da biasimare non è solo lo staff degli ospedali analizzati, ma soprattutto un sistema sempre più carente delle risorse essenziali. «Sappiamo che la maggior parte dei medici e degli infermieri offre cure palliative adeguate. Ma i problemi si presentano quando le cose prendono il verso sbagliato e questo succede soprattutto la notte e durante il fine settimana, quando il numero dei sanitari è ridotto al minimo. In quei momenti abbiamo riscontrato che è praticamente impossibile essere assistiti da uno specialista in cure palliative». Ieri pomeriggio un portavoce della Sanità ha commentato i risultati del rapporto, ammettendo che questi dimostrano, purtroppo, che «ci sono ancora molti passi da fare per migliorare l’accesso alle cure palliative». Da anni alcuni esponenti del Parlamento, tra cui la baronessa Finlay, si battono per rendere consapevole l’opinione pubblica della necessità di investire di più nelle cure palliative. Lo scorso ottobre Finlay ha presentato alla Camera dei Lord una proposta di legge dal titolo “Access to Palliative Care Bill” destinata a migliorare l’accesso alle cure nelle fasi finali di una malattia incurabile. La proposta è stata approvata dalla Camera Alta, ma ora attende il consenso dei Comuni.
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