martedì 20 aprile 2021
Dal 23 maggio il Paese accoglierà i primi gruppi di stranieri vaccinati. Il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton: «Chiamati a un grande sforzo, ma con l'aiuto del mondo ce l'abbiamo fatta»
Da domenica, in Israele non è più obbligatoria la mascherina all'aperto

Da domenica, in Israele non è più obbligatoria la mascherina all'aperto - Ansa

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D'istinto, appena usciti dall’aeroporto, abbassano un attimo la mascherina per annusare l’aria, come fossero appena atterrati su un pianeta alieno ad atmosfera rarefatta. Sono israeliani, e Israele la conoscono bene, ma rientrare dopo molti mesi, per loro, espatriati all’estero e tenuti a distanza dalla pandemia, è come arrivare in una dimensione nuova. Riadattarsi alla normalità sarà difficile (a cominciare dalla mascherina che qui, da domenica, non è più obbligatoria all’aperto). E gli expat sono le prime avanguardie di un ritorno all’“era pre-Covid” che prelude alla riapertura dei confini. E che significa turismo e pellegrini.

Al Ben Gurion si riaccendono i motori. Degli aerei e della macchina turistica. La data chiave è il 23 maggio: da allora lo Stato ebraico comincerà ad accogliere gli stranieri vaccinati, anche se in numero limitato e solo in gruppi organizzati. La parola d’ordine è prudenza, e l’obiettivo uno solo: evitare che il virus rientri nel Paese. Il governo vuole consolidare i risultati ottenuti con la campagna vaccinale: il 58% della popolazione ha ricevuto la prima dose, il 54% anche la seconda. E ieri il premier Benjamin Netanyahu ha annunciato la firma di un accordo con Pfizer per l’acquisto di milioni di dosi per il 2022. Israele è al primo posto nel mondo (da mesi) per somministrazioni, e va tenuto conto che una larga fetta della popolazione, il 25%, è sotto i 16 anni, quindi non vaccinabile. In sostanza, quasi tutto il Paese è al sicuro. Settimana scorsa, Eran Segal, biologo del Weizmann Institute of Science di Rehovot, a sud di Tel Aviv (uno dei centri di ricerca più prestigiosi del mondo) ha considerato che lo Stato potrebbe aver raggiunto «una sorta di immunità di gregge». Sarebbe il primo al mondo (si contende il primato con la Gran Bretagna). Ma, a prescindere, «qui abbiamo un’ampia rete di sicurezza», ha sottolineato Segal. E ci si allena ai rientri.

Quando il 23 maggio verranno riaperte le porte ai gruppi di turisti – per gli arrivi individuali si andrà più in là, e non c’è ancora una data –, saranno richiesti un documento vaccinale, un sierologico che attesti la presenza di anticorpi, tampone all’imbarco e tampone all’arrivo. L’Italia è in pole position: siamo il quinto mercato turistico, e prima della pandemia Israele era tra le nostre mete preferite (190.700 arrivi nel 2019, in aumento del 27% sul 2018).

«Va considerato che i gruppi più gestibili, e che quindi offrono più garanzie sotto il profilo sanitario, sono proprio i gruppi di pellegrini – dice padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa –. Sono omogenei e fanno un percorso organizzato, quindi tracciabile. Verrà richiesto il rispetto di un certo protocollo, ma ho incontrato più volte, quest’anno, i rappresentanti del governo israeliano, e hanno predisposto modelli che credo possano funzionare».

Il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton

Il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton - Archivio

Certo, molti Paesi sono ancora in difficoltà con la vaccinazione, che è la pregiudiziale per l’ingresso. «Ma un dato positivo – sottolinea padre Patton – è che gli Stati Uniti, ossia il Paese da cui arriva il maggior numero di pellegrini, sono molto avanti. Contiamo poi sul fatto che i Paesi europei si portino a buon punto prima dell’estate: per noi vorrebbe dire che almeno l’ultimo trimestre potrà comprendere arrivi da Italia, Spagna e Polonia, che hanno i numeri più consistenti». Molte aspettative anche sull’Asia, che in pre-pandemia aveva fatto registrare una crescita esponenziale di arrivi – «soprattutto dall’Indonesia, ma anche dalla Cina» – e dal Sudamerica, che però è in forte ritardo sul fronte vaccinale.

Nelle aree amministrate dall’Anp, intere comunità vivono con l’indotto dei pellegrinaggi, e tutto si è fermato. «Le parrocchie hanno dovuto affrontare un grosso sforzo caritativo, soprattutto a Gerusalemme, nella Città Vecchia, e a Betlemme – dice il Custode –. Qui in Israele c’è un sistema di cassa integrazione per cui lo Stato paga circa il 70% dello stipendio a chi rimane a casa. E il governo è stato previdente, perché fin dall’inizio, con un calcolo ben fatto, ha indicato come termine della misura il giugno 2021. In Palestina, invece, non esiste una previdenza sociale, e lì la gente si è trovata in difficoltà. Abbiamo potuto dare supporto grazie all’aiuto che ci è arrivato dalla generosità dei cristiani sparsi in tutto il mondo, e usando gli avanzi di bilancio degli anni precedenti, frutto di una buona amministrazione».

Poi si è trattato di reinventare un modo per stare vicino ai fedeli. «Ci siamo organizzati attraverso il nostro Christan Media Center, aumentando la proposta in arabo e in altre lingue. E le parrocchie si sono attrezzate per fare catechesi attraverso le piattaforme online». Non sono mancate le sorprese: «La cosa si è rivelata un moltiplicatore di presenze. Un esempio: il parroco di Acco, piccola comunità in Galilea, quando celebrava aveva 15-20 persone. Ebbene: online si è ritrovato con 7.000 persone collegate». Effetti collaterali. Per una volta, molto positivi.

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