mercoledì 1 settembre 2010
Secondo quanto riferito da alcune Ong locali all'agenzia Fides, un villaggio del Punjab abitato da cristiani sarebbe stato allagato intenzionalmente per salvare altri terreni, di proprietà di un politico locale. Almeno 15 i morti e 377 i profughi.
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Di fronte alla piena delle acque non c’è pietà che tenga. E nel Pakistan ostile ai cristiani si dirotta alla minoranza discriminata l’acqua che ha mandato giù il cielo e che l’uomo non vuole. Lo riferiscono le ong locali all’agenzia Fides: nel Punjab, nei pressi di Multan, dove si trova il villaggio cristiano di Khokharabad, è stata costruita una diga per salvare alcuni terreni e deviare le inondazioni verso aree abitate dai seguaci della Croce. Così l’intero villaggio è stato spazzato via e nessuno ha avuto il tempo di mettersi in salvo: 15 i morti e 377 i profughi cristiani rimasti senza tetto.Tai Masih, uno dei responsabili del villaggio denuncia l’aberrazione dell’uomo che si aggiunge alla calamità: «Il nostro villaggio è stato inondato di proposito» e punta il dito contro Jamshed Dasti, un politico locale di Muzaffargarh, proprietario delle terre intorno al villaggio. Sarebbe stato lui a costruire dighe e barriere e a sprofondare nella tragedia 377 persone, «senza casa e senza raccolto», sottolinea Tai Masih. Questo episodio aggrava ancora di più la situazione dei cristiani, già discriminati durante i soccorsi al Pakistan alluvionato: la Caritas e altre Ong avevano denunciato discriminazioni nella distribuzione di viveri verso gli appartenenti a minoranze religiose in Punjab e Sindh e, cinque giorni fa, nella valle di Swat, erano stati uccisi tre operatori umanitari americani cristiani, giunti sul posto per garantire gli aiuti. L’attacco era stato sferrato da integralisti islamici e proprio per evitare un blocco delle donazioni e degli aiuti (molti dei quali offerti da Ong cristiane) il governo e l’esercito pachistano mantengono il massimo riserbo sull’accaduto. Intanto, l’India ha quintuplicato gli aiuti, portandoli a 25 milioni di dollari, e l’Arabia Saudita ha inviato in Pakistan 2400 camion carichi di aiuti umanitari. Il programma alimentare mondiale (Pam) stima in 800mila le persone rimaste isolate e raggiungibili solo per via aerea. Per questo, il direttore generale dell’Unicef, Anthony Lake, e direttore del Pam, Josette Sheeran, hanno visitato la provincia del Punjab. Lanciano un appello: «La minaccia adesso è triplice: la popolazione ha perso sementi, casa e fonti di reddito».Che la situazione, eccetto nella città pachistana di Thatta, nella valle dello Swat, non stia tornando alla normalità, lo conferma ad Avvenire il commissario straordinario della Croce Rossa italiana, Francesco Rocca: «Non siamo affatto in fase di miglioramento. La rottura degli argini nella provincia del Sindh, con in 100 villaggi allagati, lo dimostra. L’unico aspetto positivo è che gli aiuti, adesso, possono partire anche da Karachi, sia su elicottero che con convogli pronti ad affrontare decine di ore di viaggio».La Croce Rossa internazionale è presente in Pakistan sia nella capitale Islamabad che a Karachi con 1500 unità tra Comitato e federazione locale a cui si aggiungono i volontari della Mezzaluna rossa presenti sul territorio. Ma, alle difficoltà per alla messa in sicurezza di aiuti, beni di prima necessità, volontari e assistenza sanitaria, si aggiunge un altro pericolo. Rocca: «Le mine: la zona dello Swat, ai confini con il Pakistan, è piena. Ciò significa che appena si ritireranno le acque, bisognerà bonificare il territorio perché saranno tutte risalite in superficie e sarà ancora più difficile localizzarle». Un motivo in più non chiudere gli occhi di fronte a una emergenza umanitaria davvero senza precedenti. E che il mondo sembra ignorare più del dovuto.
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