mercoledì 15 giugno 2022
In una fabbrica appena fuori città, civili impegnati nella resistenza confezionano in segreto chilometri di teli mimetici per nascondere le postazioni dei militari ai droni russi
Volontari al lavoro nella fabbrica segreta allestita fuori Odessa per intrecciare le reti e cucire i teli mimetici

Volontari al lavoro nella fabbrica segreta allestita fuori Odessa per intrecciare le reti e cucire i teli mimetici - Scavo

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La pesante forbice taglia a listelli intere pile di stoffa. Vestiti usati, scampoli dai mercatini, le tende di casa e perfino le lenzuola. Ogni variante di verde e marrone è bene accetta. Ne arrivano a quintali ogni giorno e da cento giorni la filiera della mimetizzazione lavora per disorientare il nemico. Le due esplosioni dell’alba, con i missili ipersonici intercettati prima dell’impatto, e le sirene che suonano ininterrottamente non fermano il lavoro. Anzi fanno accelerare la corsa contro il tempo. Il capo è Oleg Zviagin. Lo incontriamo nel centro della città, dove un intero isolato è stato convertito in centro di accoglienza e prima assistenza dei profughi. Ne arrivano 600 al giorno. Soprattutto da Mykolayv e Kherson. Chiedono cibo, vestiti, un alloggio temporaneo, soldi, qualche giocattolo per i bambini e la certezza che non verranno lasciati da soli. Oleg appartiene a un partito di opposizione, «ma adesso siamo un solo Paese, una sola nazione e abbiamo un solo presidente». Negli uffici pubblici, per le strade, nei negozi, non si vede una sola foto di Zelensky.

«Non abbiamo bisogno del culto della personalità, per sapere quello che dobbiamo fare. Zelensky interpreta lo spirito di una nazione», assicura l’esponente politico che chiede di essere preso sul serio proprio perché non parla da rappresentante della maggioranza. Ma non è nel centro di assistenza che si svolgono le mansioni più riservate. Dopo venti minuti d’auto raggiungiamo un ufficio pubblico appena fuori città. Ci viene vietato di scattare foto dall’esterno, mentre all’interno sono consentite solo alcune immagini. «Se i russi scoprissero questo posto e cosa facciamo, questa gente sarebbe a rischio», avverte Oleg. Ci sono ragazzini e signore attempate. Arrivano alla spicciolata per non attirare l’attenzione degli spioni moscoviti di cui la regione di Odessa si dice sia ancora infarcita. Uno lo hanno arrestato ieri a Belgorod- Dniester, non lontano dal ponte di Zakota, regolarmente preso di mira per impedire il passaggio del grano verso la Romania e rallentare l’afflusso delle armi. L’uomo è accusato di sostenere la propaganda russa e verrà presto condotto in tribunale. Un clima di facili sospetti che spinge i civili più impegnati nella filiera della resistenza a muoversi coprendosi le spalle. In effetti, sembra vadano a svolgere volontariato per assistere i profughi. In realtà confezionano chilometri di camoufflage con il quale nascondere agli occhi dei droni russi le postazioni ucraine. Le operazioni sono meticolose e corroborate da cento giorni di catena di montaggio. Sul retro, in un cortile coperto da una tettoia, anonime automobili vengono a raccogliere i rotoli di rete mimetica da portare verso le aree di combattimento e sulle colline dove viene nascosta la contraerea. I rotoli più lunghi e pesanti servono ad occultare i mezzi più vistosi. Quelli più piccoli, lunghi giusto un paio di metri, ven- gono indossati dai militari che devono appostarsi in aree più esposte. Sembra che niente possa fiaccare la mobilitazione dei civili a sostegno dei combattenti.

Lunedì sera la contraerea ucraina ha sparato raffiche per quattro volte, colpendo i velivoli spia spesso lanciati a bassa quota più per provocazione che per reale necessità di volare allo scoperto. Le sirene continuano a suonare, negli ultimi due giorni con maggiore frequenza. Ma non si vede un solo ucraino lasciare i tavoli all’aperto dei bar per tuffarsi in uno scantinato. A Mykolayv, dove dal 24 febbraio non è passato un solo giorno né una sola notte a digiuno dei colpi di artiglieria, ieri c’era la coda nei centri trasfusionali, dove sono riprese le donazioni di sangue. Dicono che da qui ad agosto, per reggere l’onda d’urto dell’avanzata di Mosca, occorra disporre di un milione di uomini tra combattenti al fronte e volontari nelle retrovie. «Siamo già a 900mila – dice un ufficiale in borghese venuto a controllare la linea di produzione delle reti mimetiche –. Non faticheremo a superare il milione ». Striscia dopo striscia, i pezzetti di stoffa vengono cuciti da decine di mani sulla fitta rete disposta lungo un corridoio. Da lontano sembreranno cespugli.

In meno di un’ora venti metri di mimetizzazione sono pronti. La città che non rinuncia alla vita all’aperto si prepara intanto al grande giorno: la riapertura del Teatro dell’Opera di Odessa. Sarà possibile perché è stato allestito un rifugio antiaereo dove eventualmente dovranno trovare riparo gli spettatori. Si comincia tra venerdì con un concerto dedicato alle Forze Armate. Anche le chiese collaborano. Chi nel volontariato sociale chi mettendo a disposizione auto e furgoni per portare aiuti ai civili dei villaggi isolati e munizioni ai soldati della prima linea. Le trincee fuori Mikolayv devono reggere i colpi sempre più ravvicinati dei battaglioni russi assestati a Kherson, porta d’accesso alla Crimea che Kiev spera di riprendere anche solo parzialmente già a breve. Negli ultimi giorni ci sono stati 23 feriti tra i civili almeno quattro morti tra i militari. Nelle chiese ortodosse si prega per loro, mentre il nome del patriarca russo Kirill non viene più proferito. Tuttavia diverse zone dell’Ucraina sono rimaste fedeli a Mosca. Lo conferma un pope di Odessa che, invece, ha scelto di aderire allo scisma. Per ogni ogni 10 fedeli ucraini che si identificano come membri della nuova comunità ortodossa “autocefala” – sostiene –, ce ne sono quattro rimasti legati al Patriarcato di Mosca.

Ma il prolungarsi del conflitto erode ogni giorno credenti che passano alla chiesa indipendente e dal 24 febbraio oltre 400 parrocchie hanno lasciato il Patriarcato per unirsi alla Chiesa ucraina. Solo tre settimane fa era facile contare un certo numero di campanili che restavano muti durante gli attacchi missilistici. Erano parrocchie ancora legate a Mosca. Ma oggi a Odessa non c’è una sola campana che non risuoni quando le sirene avvertono di un nuovo pericolo.

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