mercoledì 25 gennaio 2012
​Un'America dove le regole siano uguali per tutti, dove le imprese che creano posti di lavoro siano premiate e quelle che delocalizzano penalizzate. Dove ogni imprenditore che rischia possa aspirare a diventare il nuovo Steve Jobs.
 Vita & politica: dagli Usa lezione alle nostre timidezza di Francesco Ognibene
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Un'America più giusta, "costruita per durare". Un'America dove tutti tornino ad avere le stesse opportunità, dove le regole siano uguali per tutti, dove le imprese che creano posti di lavoro siano premiate e quelle che delocalizzano penalizzate. Dove ogni imprenditore che rischia possa aspirare a diventare il nuovo Steve Jobs. E soprattutto dove i ricchi paghino più tasse, per investire di più in istruzione, sanità, ricerca. È la sfida che Barack Obama - nell'attesissimo discorso sullo Stato dell'Unione pronunciato davanti al Congresso - ha lanciato all'intero Paese a dieci mesi dalle elezioni presidenziali. Rispolverando anche il glorioso slogan che lo portò alla vittoria nel 2008: 'Yes we can', "Noi possiamo fare questo, io so che possiamo". E affermando con determinazione: oggi l'America è più forte del 2008, anche se la grande sfida resta "mantenere vive le promesse".Un discorso, quello dello Stato dell'Unione, di solito bipartisan. Obama invita tutta la nazione a "fare squadra", come fecero i Navy Seal nella notte in cui fu ucciso Bin Laden. Ma il presidente - nel discorso durato poco più du un'ora - tira fuori soprattutto una grinta da campagna elettorale, adottando una visione che il Wall Street Journal a caldo definisce "nettamente populista". Nel mirino ci sono i rivali repubblicani: quelli che in Congresso bloccano il cambiamento e quelli che si sono candidati per la presidenza, che accusano Obama di voler portare il Paese allo sfascio. "Voglio combattere l'ostruzionismo con l'azione. Mi opporrò a ogni tentativo di tornare alle stesse politiche che ci hanno condotto fino a questa crisi", ammonisce il presidente tra gli applausi.In prima fila, accanto al vicepresidente Joe Biden, è seduta la First Lady Michelle. Dietro ci sono anche Lauren Powell, vedova di Steve Jobs, e l'ormai famosa segretaria di Warren Buffet, quella che - come ha denunciato lo stesso "oracolo di Omaha" - paga più tasse del suo datore di lavoro miliardario. E Obama rilancia con forza la cosidetta 'Buffet Rulè, proprio nel giorno in cui il miliardario Mitt Romney si è finalmente deciso a presentare la sua dichiaraziomne dei redditi, dalla quale emerge che paga solo il 15% di tasse. "Se guadagni più di un milione di dollari l'anno - tuona Obama - non puoi pagare meno del 30% in tasse". Giù applausi, anche da una parte del pubblico repubblicano  "Un quarto di tutti i milionari adesso pagano meno tasse di milioni di famiglie della middle-class", sottolinea il presidente: "Vogliamo mantenere questi tagli fiscali per gli americani più ricchi? Oppure vogliamo mantenere i nostri investimenti in altre cose, come l'istruzione e la ricerca"?  "Dobbiamo cambiare il nostro regime fiscale  in modo che gente come me e un incredibile numero di membri del Congresso paghino la loro giusta porzione di tasse".Poi il lavoro, altro chiodo fisso di Obama che su questo delicatissimo campo si gioca gran parte delle sue chance di essere rieletto. Il presidente - dopo aver ricordato come l'industria dell'auto 'made in Usà sia tornata ai vertici con General Motor, Chrysler e Ford - respinge tutte le critiche degli avversari: "Nel 2008 il castello di carte è collassato", con tutte le conseguenze del caso. "Nei mesi che hanno preceduto il mio primo mandato abbiamo perso circa 4 milioni di posti di lavoro. E ne abbiamo presi altri quattro milioni prima che le nostre politiche avessero effetto. Ma negli ultimi 22 mesi - rivendica - le imprese hanno creato più di tre milioni di posti. Lo scorso anno hanno creato il maggior numero di posti dal 2005. Questi sono i fatti".Sulle prossime elezioni incombe anche l'incognita Iran. Obama ribadisce: "L'America è determinata ad impedire che l'Iran ottenga l'arma nucleare, e io non tolgo alcuna opzione dal tavolo". Una risposta anche a chi lo definisce timido in politica estera.
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