lunedì 10 aprile 2023
La donna è sfollata a Bucha e aspetta «il miracolo della liberazione», come lo definisce. Come tanti compagni è stato catturato nel conflitto in Donbass ben prima dell’invasione. «Ma è ignorato»
Tetiana Matiushenko con la foto del marito Valeriy internato in una colonia penale russa del Donbass da oltre sei anni

Tetiana Matiushenko con la foto del marito Valeriy internato in una colonia penale russa del Donbass da oltre sei anni - Gambassi

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«È stata la sesta Pasqua senza il mio Valeriy». Da più di duemila giorni Tetiana Matiushenko aspetta il marito. E soprattutto aspetta «il miracolo della liberazione», come lei lo definisce. Continua a sperare anche dentro una delle case-container di Bucha dove adesso ha trovato un tetto. È a ottocento chilometri la “colonia maschile numero 32” di Makiivka in cui si trova Valeriy, nella città del Donbass che, almeno secondo la visione del Cremlino, la Russia ha strappato all’Ucraina e annesso all’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk. Prigioniero dei russi dal 15 luglio 2017. «E dimenticato da chi avrebbe la possibilità di fare qualcosa», sospira Tetiana.

Il suo stile composto non dice tanto di una moglie e madre di 44 anni che sembra non avere più neppure la forza di piangere, ma del temperamento di quanti scelgono di lottare come fossero Davide contro Golia. «Oggi tutti si concentrano sul rilascio di coloro che sono stati catturati dall’esercito di Mosca in quest’anno di invasione. Si fanno liste per gli scambi dei nostri ostaggi finiti da qualche mese nelle carceri oltre confine o nei territori occupati. Ma nessuno si ricorda che a Donetsk e Lugansk i combattimenti ci sono dal 2014. E anche i detenuti di guerra. Compresi quelli civili, come i nostri parenti, che sono in cella da anni».

Perché Tetiana ha fondato l’associazione “Ritorno a casa” che dà voce e coraggio alle famiglie sprofondate nell’incubo delle condanne politiche. «Sì, mio marito e tutti quelli che sono nelle sue stesse condizioni sono prigionieri politici, rinchiusi in autentici lager», spiega. E racconta: «Valeriy non ha mai avuto un’arma. Era un musicista e un uomo d’affari. È stato rapito dai miliziani separatisti». Per dieci mesi è rimasto nello scantinato di una prigione segreta. «E ha subìto folli torture». Poi a marzo 2018 la condanna a dieci anni di reclusione per “spionaggio a favore dell’Ucraina”.

Qualche mese dopo sarebbe toccato a Olena Piekh essere arrestata. «La sua colpa? Ritenersi una cittadina in tutto e per tutto ucraina in una terra che Putin considera propria», sostiene la figlia Izabella, 31 anni, che è fuggita in Gran Bretagna. «Mia madre che è in mano russa da quasi cinque anni lavorava nel dipartimento scientifico di un museo: non certo una radicale. L’hanno tenuta per tre mesi in isolamento. L’hanno pestata più volte, pugnalata alle ginocchia, attaccata alla corrente, cercata di soffocare. Per mettere finire a questi supplizi ha tentato il suicidio. Inoltre soffre di gravi crisi epilettiche».

Ora è nella “colonia correttiva numero 127” a Snizhne, sempre in Donbass. Tredici anni di carcere la pena inflitta dal tribunale d’occupazione per aver «tradito la patria della Repubblica popolare di Donetsk», si legge nella sentenza. «Non sono penitenziari quelli in cui si trovano i nostri cari – denunciano le due donne – ma campi di concentramento alle porte dell’Europa dove le sevizie, gli abusi sessuali su donne e uomini, gli elettrochoc, la povertà estrema, la mancanza di assistenza sanitaria sono all’ordine del giorno. Anche così il Cremlino ci vuole sottomettere». Izabella prende fiato. «E dire che molti dei miei parenti sono filorussi. Non ho più contatti con loro».

Il cellulare di Tetiana conserva i ricordi di una vita che «sembra di un secolo fa», ammette a fil di voce. È tutto ciò che ha portato con sé quando ha lasciato la sua regione d’origine. «Ecco Valeriy e nostro figlio mentre erano al mare. E queste sono le foto dell’ultimo compleanno tutti insieme».

Poi appare l’immagine di un uomo scheletrico. «L’ha scattata mia madre. È Valeriy. Dopo più di sei anni di carcere, è riuscita a visitarlo. Pesa appena 50 chili. Potrebbe avere il cancro ma nessuno gli ha mai fatto esami specifici. E ha la sindrome di Tourette». Quando il marito è stato arrestato, Tetiana si è rifugiata con il figlio nella parte dell’oblast di Lugansk ancora libera «Temevamo anche noi di essere presi. Con l’inizio dell’invasione su vasta scala siamo evacuati». Stavolta assieme alla madre di Tetiana.

«È cardiopatica. Grazie alla Caritas è stata curata a Fano, in Italia, dove siamo rimaste da sfollate fino a settembre. Poi lei è voluta rientrare». Nei territori occupati del Donbass. «Ha deciso di essere il più vicino possibile a mio marito e a mio padre. Una scelta sofferta. Invece mio figlio di 21 anni è al sicuro a Manchester».

L’associazione ha provato in mille modi a chiedere la liberazione degli internati. «C’è bisogno dell’intervento della comunità internazionale», avverte Izabella. E Tetiana mostra la bozza di una lettera. «La stiamo scrivendo a papa Francesco. Lui è ormai la nostra unica speranza per riabbracciare i familiari. Ed è il solo che può promuovere una missione umanitaria per salvarli». Una pausa. «È grazie alla fede se sono stata in grado di affrontare questi anni così terribili», confida. Poi apre un piccolo dossier che porta la sua firma. «Sogno di creare qui a Bucha un centro di arteterapia per i bambini con traumi di guerra. Questo è il progetto per il quale cerco fondi». Pagine che, lette alla luce del suo dramma, testimoniano come dal dolore di una donna possa sempre nascere un domani nuovo.

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