sabato 31 ottobre 2015
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Una situazione mai vista prima. La paura e il sospetto che si annidano fra la gente. Una parte di Turchia che potrebbe scomparire, perché chi può preferisce andarsene. 

 G.S., 40 anni, è un’attivista dei diritti umani cristiana che da anni vive a Diyarbakir. Ad  Avvenire racconta come dal 7 giugno, data delle ultime elezioni, la situazione sia peggiorata progressivamente, non solo per i curdi, ma anche per le minoranze religiose. E spiega perché la gente attende il primo novembre come una liberazione. Lei vive nella zona da diversi anni, che cosa sta succedendo? Dopo il 7 giugno il sud-est del Paese è stato letteralmente militarizzato. La vita quotidiana è completamente condizionata, e in alcune città c’è il coprifuoco. Ci sono giorni dove in alcune zone si può uscire solo a fare la spesa. A Cizre, i soldati turchi non hanno fatto uscire la gente di casa, hanno attaccato palazzi e civili, ci sono stati almeno 24 morti. Hanno superato qualsiasi limite, questa volta sono stati disumani. Come convivete con il rischio di infiltrazioni dello Stato islamico? Adesso non sai più nemmeno a chi puoi rivolgere la parola. Questa è una terra dove musulmani, ortodossi, aleviti e siriaci sono sempre andati d’accordo. Ora regna un clima di sospetto che si accompagna alla paura. Si va dai livelli più alti alla vita di tutti i giorni. Abbiamo un governo che viene accusato senza mezzi termini di essere troppo indulgente con Is. E tutti si comportano come se non ci si possa fidare più di nessuno. E voi cristiani come vi sentite? Sempre peggio. Chi chi può se ne va, soprattutto i più giovani, che spesso vengono mandati via dalle loro famiglie per andare dove c’è più sicurezza. I monasteri temono di venire attaccati da un momento all’altro. Se dovessero essere costretti a chiudere, per le persone che lì vi hanno trovato ospitalità sarebbe la fine. Arrivano, poi, telefonate anonime, cosa che non era mai successa prima. Se una famiglia compra casa in un palazzo dove abitano solo musulmani, fanno capire che non è ben voluta. La tensione è palpabile. Durante l’ultima festa del Sacrificio, alcuni cristiani sono stati rimproverati perché non festeggiavano la ricorrenza come i musulmani. La società si è radicalizzata rapidamente. Lei come si spiega questo mutamento? Io penso che il governo abbia una responsabilità gravissima, e che dopo le elezioni abbia spinto ancora di più a questa radicalizzazione. Prima utilizzavano l’elemento religioso, adesso vi hanno unito anche il fattore nazionalista. I primi a farne le spese sono i curdi, ma le minoranze arrivano subito dopo: ormai veniamo percepiti come “diversi”. Persino gli aleviti, con i quali ho ottimi rapporti, evitano di dichiararsi in pubblico. Che cosa si aspetta dalle elezioni di domenica? Io spero veramente che ci sia un governo di coalizione e che il clima divenga più disteso. La gente è stanca, e dopo il primo novembre potrebbe iniziare a reagire.

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