mercoledì 5 luglio 2017
La Corte Suprema di Gerusalemme ha respinto la richiesta del padre del sedicenne bruciato vivo nel 2014 che chiedeva l'abbattimento delle case degli assassini di suo figlio. «Troppo tardi»
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La richiesta è stata presentata troppo tardi. Con questa motivazione, la Corte Suprema di Gerusalemme ha respinto la richiesta di un palestinese, Hussein Abu Khdeir, di ordinare la demolizione delle case di tre attentatori ebrei che tre anni fa a assassinarono brutalmente suo figlio di 16 anni, Mohammed.

Il ragazzino palestinese rapito, picchiato e bruciato vivo

Accadde il 2 luglio 2014: Yosef Haim Ben David e due complici, anche loro minorenni, rapirono il ragazzino e lo picchiarono prima di bruciarlo vivo. Il corpo di Mohammed fu trovato ore dopo in una foresta nella parte occidentale della città. Ben David è stato condannato all'ergastolo nel maggio 2016. I due minorenni furono processati separatamente e condannati all'ergastolo e a 21 anni di carcere nel febbraio 2016.

La «deterrenza» usata con gli attentatori arabi

La famiglia della vittima aveva fatto richiesta all'allora ministro della Difesa Moshe Yaalon di demolire le case dei tre assalitori, misura che spesso Israele adotta nel caso di attentatori arabi, come deterrente, sostiene lo Stato ebraico, per i potenziali assalitori. Ma non accadde nulla. Ieri i giudici della Corte Suprema non hanno respinto in linea di principio la possibilità che le case di attentatori ebrei possano essere demolite ma hanno spiegato che il lungo lasso di tempo trascorso renderebbe il provvedimento superfluo e privo di deterrente.

«Lungaggini dell'iter giudiziario»

In un'intervista alla Radio militare, Hussein Abu Khdeir ha detto di aver perso fiducia nella giustizia israeliana. Il lungo tempo
trascorso, ha precisato, non può essere imputato alla sua famiglia ma alle «lungaggini» dell'iter giudiziario israeliano. «La Corte Suprema ci ha inflitto un duro colpo», ha detto Abu Khdeir.

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