sabato 11 gennaio 2014
​​La scelta è un ulteriore ostacolo per il processo di pace fortemente voluto dalla Casa Bianca. L’accordo con Teheran sul nucleare e il disimpegno statunitense dalla regione hanno isolato il premier di Gerusalemme.
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Sharon – confida Uri, una nostra vecchia conoscenza della Knesset – è per Netanyahu come l’ombra di Banco per Macbeth, una sua personale ossessione. E adesso che il vecchio combattente ci sta lasciando, “Bibi” ha alzato la posta, come per concludere una sfida che finora non ha mai vinto». C’è sicuramente del vero nelle parole misurate di questo anziano intellettuale laburista: difficile pensare che questa improvvisa fiammata del premier – il bando del ministero dell’Edilizia per la costruzione di 1.877 nuovi alloggi (1.076 a Gerusalemme Est e 801 in Cisgiordania nelle popolose colonie di Efrat, Betar Illit e Ariel) reso pubblico ieri – sia casuale. A recepirlo per primo nelle sue prevedibili conseguenze è stato Saeb Erekat, capo negoziatore palestinese: «Il progetto di nuove costruzioni – dice – è un chiaro messaggio del premier Netanyahu a John Kerry a non tornare nella regione per proseguire i suoi sforzi nei negoziati tra Israele e palestinesi». Una mezza verità: perché è proprio la tradizionale rigidità palestinese (Arafat ne era maestro indiscusso) a bloccare il più delle volte le vie di accesso a un compromesso vantaggioso per tutti. La domanda comunque s’impone: davvero Netanyahu vuol far fallire il negoziato faticosamente avviato nel luglio scorso? Formalmente no, certamente però molte cose sono cambiate rispetto a sei mesi fa. In cima a tutte, la politica americana dopo l’intesa di Washington con l’Iran sulla non proliferazione nucleare, poi il successo diplomatico di Putin che ha disinnescato l’imprudente avventura che Obama stava per intraprendere in Siria, quindi il più che plateale disimpegno della Casa Bianca nel teatro mediorientale a favore di una politica estera quasi esclusivamente incentrata sul Pacifico e sul contenimento economico e militare della Cina. In altri termini Netanyahu non può contare come i suoi predecessori sul pieno appoggio americano: mai come in questa fase, con questo presidente (Obama), i rapporti fra Gerusalemme e Washington sono stati così gelidi. Al mediatore Kerry Netanyahu non ha lasciato grandi illusioni: un accordo di pace con Abu Mazen è impossibile se non verrà riconosciuto Israele come Stato del popolo ebraico. Il premier è in buona compagnia: quattro israeliani su cinque sono persuasi che i nuovi colloqui con l’Anp avviati a luglio con la mediazione americana siano destinati a fallire. Un sondaggio del quotidiano <+CORSIVOA>Maariv<+TONDOA> non lascia dubbi: l’80% degli ebrei non crede che il governo israeliano e Netanyahu possano arrivare a un accordo. Non mancano gli irriducibili della destra religiosa e i più radicali fra i coloni a pungolare il premier: «Israele non ha bisogno di una pace con i palestinesi, bensì di una guerra con Teheran», dicono, sapendo che nel loro accecato oltranzismo a loro modo fanno da eco al sempre meno sommesso timore che si leva dapprima lieve poi sempre più intenso come una tempesta di sabbia dalla penisola arabica. Da lì, da Riad, da Doha, da Dubai le opulente monarchie del Golfo guardano con cipiglio inquieto a quell’Iran grande elemosiniere e grande sceneggiatore del sanguinoso conflitto religioso fra sciiti e sunniti che infiamma il Medio Oriente da Falluja a Damasco, passando per il Libano degli Hezbollah e i cui tentacoli si allungano fino allo Yemen, al Bahrein. Giusto ieri i rappresentanti di Teheran e del 5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania) hanno raggiunto un’intesa per applicare l’accordo di Ginevra sul nucleare iraniano. Lo ha annunciato un alto funzionario iraniano, in parte smentito da Washington. La decisione finale spetterà alle singole capitali, ma ci sono buone possibilità che il protocollo venga avviato già fin dal 20 gennaio prossimo. Un Iran, dunque, cui si allenterà progressivamente la morsa delle sanzioni e che – nessuno ne dubita – si doterà prima o poi dell’arma nucleare. Chi potrebbe fermarlo, se non Israele? E cosa avrebbe fatto Sharon, del quale gli scarni bollettini medici preconizzano la fine imminente, schiudendo quel lutto nazionale tenuto in sospeso da otto anni? Si direbbe che – in estremo omaggio a “Ariel il Bulldozer” – Benjamin Netanyahu sia più propenso a giocare la pericolosa partita iraniana che a intorcinarsi nelle secche di un processo di pace che si smaglia ad ogni tornante, trafitto e sminuzzato dai bizantinismi palestinesi e soprattutto nato già morto per l’assenza di Hamas, nonostante le profferte di al-Fatah per una riconciliazione tecnica in vista di un possibile accordo con Israele. Un’assenza che lascia aperta l’eterna ferita di Gaza. Dove non a caso hanno ricominciato a esplodere colpi di mortaio diretti in Israele, mentre dalle cantine della Striscia si sfoderano i missili Kassam e forse qualche proietto più temibile e a più lunga gittata. I raid dell’aviazione con la stella di David sono già cominciati. «Solo un miracolo può portare a un accordo di pace in Medio Oriente, perché nonostante la mediazione degli Usa tra israeliani e palestinesi non c’è accordo su nulla», ammette Nemer Hammad, consigliere di Abu Mazen. Ma la Palestina è terra di miracoli. E questo sono in molti a crederlo davvero.​
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