domenica 27 marzo 2016
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L’oblio nell’oblio: l’assalto, il 4 marzo scorso, alla casa delle suore di Madre Teresa di Aden e la barbara uccisione di sedici persone, tra cui quattro religiose, sono stati generalmente accolti con la medesima “indifferenza mediatica” finora riservata all’intero conflitto in Yemen. Eppure, oltre 6.100 persone sono morte dall’inizio della guerra, gli sfollati interni sono circa 2,5 milioni e l’80% della popolazione, già la più povera dell’area, necessita di assistenza primaria. La crisi umanitaria dello Yemen è stata aggravata dall’embargo imposto dalla coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita, che bombarda il Paese esattamente da un anno nel tentativo di piegare i miliziani sciiti zaiditi del nord (gli Houthi del movimento Ansarullah) e i militari ancora fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, che controllano la capitale Sanaa dal colpo di stato del gennaio 2015. Aden, la seconda città del Paese, è stata strappata l’estate scorsa ai miliziani sciiti, grazie all’azione congiunta di esercito yemenita, soldati della coalizione saudita e, soprattutto, delle tante milizie locali, ma sta sperimentando ora un pericoloso vuoto di potere. Infatti, il ritorno delle istituzioni governative nella città, qui trasferitesi dopo l’occupazione di Sanaa, non è coinciso con il recupero della stabilità. Ciò che resta dell’esercito regolare (visto che la parte meglio addestrata combatte con gli insorti) non è in grado di controllare un territorio ormai conteso fra governo, milizie jihadiste, gruppi autonomisti e/o secessionisti. La presidenza di Abd Rabu Mansur Hadi è sempre più debole: nonostante questo ex militare sia originario di una regione del sud (Abyan) confinante con Aden, egli gode di poco consenso sia nell’esercito che fra le tribù meridionali. L’unico collante che teneva insieme questa fazione era l’opposizione agli Houthi del Nord. Allontanato il nemico comune, è invece la diffidenza reciproca a prevalere, tanto che i capi tribali di Aden vengono marginalizzati dal processo di ricostituzione degli apparati di sicurezza locali, mentre l’attivismo degli Emirati Arabi Uniti talvolta sostituisce, nella fase di gestione del post-conflitto, il governo yemenita legittimo. Come già avvenuto in Siria, Iraq e Libia, sono i gruppi che predicano il jihad armato ad approfittare dell’anarchia istituzionale in contesti tribali, spesso guadagnandosi, da parte delle popolazioni locali, un consenso che non deriva primariamente dall’adesione ideologica, ma piuttosto dalle convenienze del momento e dalla comune ostilità verso il potere centrale. In Yemen, molti miliziani del Sud passano dalle file della Resistenza Meridionale (che affianca l’esercito regolare) a quelle di al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) e dell’affiliata Ansar al-Sharia poiché questi – e non le istituzioni – sono in grado di offrire uno stipendio. Lo Yemen di oggi è un Paese molto diverso da un anno fa. Il conflitto, che ha profonde radici interne, si è sempre più regionalizzato a causa dell’intervento militare saudita e delle interferenze politiche dell’Iran. La guerra dello Yemen non è però un conflitto puramente settario: i livelli intersecati dello scontro sono almeno quattro. Il contrasto per il potere e le risorse fra il centro (Sanaa) e le periferie (il Nord degli houthi e il Sud con pulsioni autonomiste); la lotta tra il vecchio regime di Saleh, in carica fino alla “primavera yemenita” del 2011 e la nuova oligarchia del presidente ad interim Hadi e di Islah (il partito che raccoglie i Fratelli musulmani e i salafiti); la tensione fra gli insorti sciiti e le tribù prevalentemente sunnite del Sud; e, appunto, la rivalità fra Arabia Saudita e Iran. In questi giorni, le notizie relative a una ripresa informale dei negoziati, questa volta fra i miliziani sciiti dello Yemen e l’Arabia Saudita, hanno aperto uno spiraglio di speranza: i colloqui formali targati Onu dovrebbero riprendere il 18 aprile in Kuwait. La mediazione tribale diretta sembra più efficace dei “tavoli” delle Nazioni Unite. Vi è stato un significativo scambio di prigionieri e la violenza lungo il confine tra i due paesi si è placata (sono stati molti i lanci di missili Scud in territorio saudita), mentre l’esercito regolare accerchia il distretto di Sana’a, in vista della battaglia per la capitale. Tuttavia, di fronte a una realtà geografico-tribale così frammentata e in assenza di un progetto politico condiviso sul futuro dello Yemen, se anche i bombardamenti finissero non cesserebbe la guerriglia inter-tribale. Tra l’altro, il finora mancato coinvolgimento negoziale del governo yemenita e del presidente Hadi, scavalcati da Riad, la dice lunga sulla forza politica delle attuali istituzioni e sulla loro capacità di far rispettare, sul campo, eventuali accordi ai vertici. Di fatto, lo Yemen è già “diviso in quattro”: Saada, roccaforte nord degli Houthi, le tante aree ancora contese fra esercito regolare e insorti (come Taiz), i territori controllati da Aqap nel Sud, come Mukalla nell’Hadramout, infine le zone a diretta gestione tribale. Colpendo le infrastrutture civili ed energetiche, i bombardamenti hanno danneggiato ciò che restava dell’economia yemenita, ormai ostaggio delle reti informali: l’instabilità impedisce l’esplorazione di nuovi campi petroliferi, dato che quelli scoperti sono in esaurimento. L’interruzione delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Iran e l’incapacità di entrambe le fazioni yemenite di prevalere militarmente hanno allontanato la risoluzione del conflitto. Di certo, l’anarchia violenta e la diffusione del “veleno” settario trasformano lo Yemen in un Paese sempre più inospitale per le minoranze, anche religiose, come i cristiani e l’ormai minuscola comunità ebraica locale. È sempre più lontano il tempo in cui Aden era tra le città più cosmopolite del mondo arabo. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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