lunedì 17 novembre 2014
Il prete, nel mirino del crimine, è stato il primo a rivelare la verità sui 43 studenti di Iguala: «Uccisi con la complicità dello Stato anche se manca il test del Dna I parenti fanno bene a lottare».
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«Sono sconcertato e addolorato. Per padre John Ssenyondo, missionario comboniano il cui corpo è stato trovato due giorni fa in una fossa comune a Ocotitlán, e per le altre centinaia di sacerdoti che, negli ultimi anni, sono stati uccisi, sequestrati, pestati, estorsionati... Poco tempo fa è stato aggredito un vescovo. È un segno del fatto che ormai il crimine ha perso ogni freno. Prima, i sacerdoti erano “intoccabili”. Ora, se difendi i poveri e gli innocenti dai narcos finisci automaticamente nelle loro liste di morte». Ne sa qualcosa padre Alejandro Solalinde, direttore del rifugio Hermanos en el camino di Ixtepec, nel Oaxaca. Le sue denunce contro gli abusi del crimine organizzato su migranti, donne, bambini, gli sono costate innumerevoli minacce di morte. E una taglia da 400mila dollari. «Credo sia un po’ aumentata adesso...», scherza il sacerdote, costretto a vivere sotto scorta da quattro anni dopo un assalto dei narcos. Le rivelazioni di padre Alejandro sui 43 studenti scomparsi a Iguala l’hanno di nuovo situato nell’occhio del ciclone. Il 19 ottobre, mentre le autorità cercavano di far passare il sequestro dei ragazzi come un disputa fra delinquenti rivali, Solalinde ha gridato al Messico e al mondo la verità. I giovani erano stati catturati dai poliziotti per ordine del sindaco – vero capo della mafia dei Guerros Unidos – e ceduti ai narcos. Questi ultimi li avevano assassinati e bruciati, alcuni ancora vivi. «Non avrei mai voluto dare una simile notizia. Mi si lacerava il cuore mentre lo dicevo. Ma avevo il dovere di farlo, come cristiano e sacerdote. Avevo avuto conferma da cinque fonti affidabili, di cui non svelerò mai il nome. Non potevo permettere che si continuasse a mentire alle famiglie e all’opinione pubblica», racconta ad Avvenire il sacerdote, in uno dei rari momenti di tranquillità. Dopo settimane, anche la Procura ha confermato questa versione in base alle testimonianze di tre arrestati. I resti carbonizzati dei ragazzi, però, finora non sono mai stati trovati. Quelli scoperti nelle prime fosse comuni non appartengono ai giovani: lo hanno detto le autorità messicane e confermato, l’11 novembre, la prestigiosa équipe argentina di antropologia forense. Nel frattempo, sono spuntate altre ossa, nel fiume Cocula, alla periferia di Iguala. Stavolta, il tutto è stato spedito in Austria, all’Università di Innsbruck, per un’analisi imparziale, come chiesto dai familiari. Che rifiutano di accettare l’assassinio dei figli. «Questi giovani rappresentano i 27mila scomparsi degli ultimi otto anni. Lo Stato finora ha ignorato il problema. Il caso di Iguala lo ha costretto ad ammettere la realtà. I genitori lottano per esigere verità e giustizia. Questo è il vero significato dello slogan: “Li rivogliamo vivi”. E io mi unisco al loro grido», aggiunge padre Alejandro. Accompagnare le vittime della violenza è per Solalinde l’unica forma di evangelizzare ai tempi della narco-guerra. «Come ha fatto padre Ssenyondo. È venuto dall’Uganda a Nejaba, nella diocesi di Chilpacingo-Chilapa, una zona infestata dai narcos e abbandonata dal potere centrale. Là è diventato l’unico punto di riferimento per i 3mila abitanti, poveri contadini vessati dal crimine. Per questo, sette mesi fa, l’hanno rapito e ucciso. Ci sono tantissimi casi come il suo. Ufficialmente se ne calcolano una trentina dal 2006 ma troppi mancano all’appello: il Messico è una tomba clandestina... Paura? La mia unica paura è quella di non essere fedele a Gesù...»
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