venerdì 8 marzo 2013
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La signora Irina Grigoryan, prima della guerra insegnava agli studenti di un liceo di Stepanakert, capoluogo del Nagorno Karabakh. Nel suo piccolo ufficio, appesa alla parete, ha una grande fotografia. Due mani, una bianca e una nera, che si stringono, e le parole in inglese che dicono: «Diamo speranza alla pace».La scuola, le lezioni, i libri, le discussioni con «i miei ragazzi» sono per lei memorie vive, come fosse un’interminabile primavera. Ma non è stato così. I bei giorni trascorsi con quei ragazzi sono stati dilanianti dai rintocchi funesti di una campana. «L’ottanta per cento dei miei studenti, armeni e azeri, immaginatevi quattro classi, sono morti sotto i bombardamenti». Ma anche due dei tre figli di questa madre e insegnante sono stati uccisi dalla guerra etnica degli anni Novanta fra Karabakh e Azerbajian.La signora Grigoryan, oggi, si circonda di altri "figli", e sono 230. Imparano, cantano, recitano, giocano, disegnano. Sono i bambini dell’asilo che dirige. Lei li guarda e ci racconta di un’altra sua attività, la «diplomazia pubblica», per riavvicinare le comunità armena e azera attraverso il dialogo dentro la società civile: «Lo faccio per il loro futuro».L’associazione, non governativa, si chiama Public diplomacy institute e ha la finalità di costruire una soluzione pacifica della guerra sospesa, attraverso il coinvolgendo diretto delle due popolazioni: «Nella pluralità delle voci e delle opinioni, possiamo trovare la chiave per aprire le porte alla pace. Anche se non è sempre facile e le rigidità sono dure da sciogliere».«Il punto di partenza è la convinzione che anche la popolazione azera non vuole la guerra. Ho testimonianza di questa mia consapevolezza negli incontri con la società civile azera che periodicamente teniamo a Tblisi, in Georgia – racconta la signora Irina. – Una finestra aperta sulla pace, la "diplomazia pubblica", appunto. Quella fatta da uomini e donne che non devono irrigidirsi nei canoni dell’ufficialità, ma sanno avvicinarsi con una semplice stretta di mano che ci faccia dire: diamo speranza alla pace». «Tra armeni e azeri, non ci sono mai stati problemi etnici. Quello che sta accadendo è opera di una manipolazione e di un gioco di interessi molto più grande di noi», osserva la direttrice Irina.L’auspicio di questa donna è di tornare a vivere accanto ai suoi vicini azeri di un tempo: «Sto facendo di tutto perché questo giorno si avvicini presto. Anche in Azerbaijan la gente è stanca della guerra. Noi siamo pedine, vittime di altri, stretti dal gioco di Paesi vicini e Paesi lontani: alcuni amici, altri ostili». E i bambini dell’asilo? Che cosa raccontare della guerra? «Evitiamo di farlo. Sono i figli dei bambini cresciuti sotto le bombe, nascosti nei bunker e nelle cantine. Genitori che hanno vissuto uno stress inimmaginabile. La mia formazione pedagogica mi dice che va evitato di raccontare ai più piccoli le iconografie della guerra. Non siamo più sotto i bombardamenti, e questo ci concede il lusso di trasmettere a questi piccoli solo messaggi positivi. È sbagliato comunicare sentimenti di rancore. La pace ha bisogno di ben altro nutrimento».
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