martedì 13 aprile 2021
I soldati sono entrati in almeno quattro edifici sacri cercando gli oppositori. I morti nella repressione sono saliti a 710, tra loro anche 50 bambini
La protesta a Dawey: i manifestanti fanno il saluto con le tre dita mutuato dalla saga di Hunger games

La protesta a Dawey: i manifestanti fanno il saluto con le tre dita mutuato dalla saga di Hunger games - Reuters

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Si aggrava la repressione in Myanmar, che ha provocato finora almeno 710 morti, tra cui 50 bambini. La resistenza alla giunta militare – che ha preso il potere il primo febbraio, esautorando e mettendo agli arresti buona parte del Parlamento e del governo – non è, però, disposta a cedere e, anzi, si estende a ogni regione del Paese e a ogni componente sociale e etnica. Il regime applica con sempre più efferatezza la strategia del terrore, colpendo non soltanto i manifestanti in piazza, ma anche attaccando interi quartieri e villaggi, compiendo rastrellamenti notturni, devastando istituzioni sociali e caritative, invadendo luoghi di culto.

La situazione sta provocando una reazione violenta, in primo luogo, da parte delle milizie etniche che non hanno accolto l’offerta di tregua delle autorità e che, in modo crescente, stanno impegnando in combattimenti l’esercito birmano con numerose vittime. Anche la stessa popolazione, però, in diverse località, sta difendendo con armi improvvisate le proprie abitazioni e i propri beni, reagendo in modo anche letale alle azioni di soldati e poliziotti. In questa situazione cresce il rischio per i cattolici e le loro istituzioni di essere coinvolti dalle violenze.

Così è stato l’8 marzo per la Cattedrale di Myitkyina, dove avevano trovato asilo alcuni manifestanti per sfuggire al fuoco dei militari e dove il vescovo emerito e alcune suore hanno mediato per evitare un ulteriore spargimento di sangue. Illuminante l’esempio di suor Ann Rose Nu Tawng che in quell’occasione come anche in precedenza ha chiesto ai militari ragionevolezza inginocchiandosi davanti a loro e ricevendone gesti di rispetto. In altri casi le iniziative repressive non hanno risparmiato nemmeno le chiese. Almeno quattro, secondo l’agenzia cattolica pan-asatica UcaNews, gli edifici religiosi coinvolti in irruzioni armate e perquisizioni nella diocesi di Pathein la sera dell’8 aprile. I militari cercavano prove di attività illegali e di oppositori alla macchia. In un caso è stato perquisito anche il vicino cimitero cristiano.

Un’altra chiesa cattolica è stata presa di mira a Mandalay il 3 aprile e in precedenza almeno tre altri luoghi di culto protestanti e uno cattolico avevano subito la stessa sorte nello stato Kachin. Solo la punta dell’iceberg, probabilmente, per la difficoltà di raccogliere informazioni attendibili e farle circolare, ancor più da parte di testimoni che temono ritorsioni in un Paese dove i cristiani sono il 6,3 per cento della popolazione di 55 milioni e i cattolici l’1,4 per cento. In almeno un caso, quello di una chiesa battista a Lashio, nello stato Shan, il primo marzo, i militari hanno sparato a scopo intimidatorio all’interno dell’edificio. Altri segnali di una situazione complessiva che, ha segnalato ieri Michelle Bachelet, Alto commissario Onu per i diritti umani, rischia di portare il Myanmar verso una situazione di conflitto aperto simile a quello siriano. Per questo ha chiesto ancora una volta azioni decise per costringere i militari birmani a fermare la «campagna di repressione e massacro del proprio popolo».

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