giovedì 25 marzo 2021
La Corte Suprema ha definito parziale il modo di agire dell'ex procuratore Sergio Moro nei confronti dell'ex presidente. Da due anni e mezzo si moltiplicano i dubbi sulla maxi inchiesta "Lava Jato"
Manifestazione in favore di Lula di fronte alla Corte Suprema di Brasilia

Manifestazione in favore di Lula di fronte alla Corte Suprema di Brasilia - Reuters

COMMENTA E CONDIVIDI

Era il 4 dicembre 2018. Qualche settimana prima, le elezioni avevano certificato il trionfo di Jair Bolsonaro, passato da candidato impresentabile a presidente del Brasile. Nella squadra di governo figurava l’ex procuratore di Curitiba Sergio Moro, icona anticorruzione e “grande accusatore” di Luiz Inácio Lula da Silva, favorito nella corsa ed escluso proprio per le condanne inflittegli da quest’ultimo nell’ambito dell’indagine Lava Jato. Immediatamente, la difesa del leader del centrosinistra aveva incolpato Moro di fronte alla Corte Suprema di aver agito per «fini politici»: la prova sarebbe stata proprio l’incarico di ministro della Giustizia ricevuto dal rivale di Lula. Quel 4 dicembre, con due alti togati a favore e due contro, si attendeva l’ultimo pronunciamento di Kassio Nunes Marques, che, con tutta probabilità, avrebbe fatto rigettare l’istanza. Il voto è però arrivato quasi 28 mesi dopo.Nel mezzo, la seduta è stata sospesa per acquisire nuovi elementi. È ripresa martedì sera (la notte in Italia) e come previsto, Kassio Nunes Marques s’è schierato con Moro. A sorpresa, però, la magistrata Cármen Lúcia ha cambiato la sua scelta – pratica concessa dalla legge –, facendo pendere la bilancia a sfavore dell’ex procuratore di Curitiba. Con una maggioranza di 3 a 2, l’Alto Tribunale ha stabilito che quest’ultimo ha agito in modo «parziale» nei confronti di Lula. La sentenza, pur relativa a uno dei casi per cui è stato condannato l’ex presidente, rischia di seppellire definitivamente l’inchiesta Lava Jato, con i suoi oltre 50 processi e 150 «colpevoli», molti illustri, tra politici ed manager. In realtà, la Corte s’è limitata a certificare i dubbi via via più consistenti emersi negli ultimi due anni e mezzo, dentro e fuori le aule giudiziarie. Più ancora della nomina a ministro, a infliggere un duro colpo alla credibilità dell’indagine è stata, nel giugno 2019, la diffusione, sul sito di inchiesta The Intercept, di varie intercettazioni in cui Moro, magistrato giudicante, sembrava “imbeccare” i pm dell’accusa durante i processi di Lava Jato. A inizio febbraio, la polizia ha confermato l’autenticità dei messaggi. Il colpo di grazia, però, è arrivato l’8 marzo, quando l’alto giudice Edson Fachin ha annullato la duplice condanna nei confronti di Lula perché il tribunale di Curitiba non era «competente» ad emetterli e gli ha restituito i diritti politici. Almeno per ora. La decisione deve essere confermata dal plenum della Corte. Nel frattempo, il massimo Tribunale ha messo Moro sul banco degli imputati. E l’ha condannato. Questo non spalanca automaticamente la strada a Lula per le presidenziali 2022. Altri due verdetti – ancora per Lava Jato– sono congelati in attesa della plenaria dei magistrati supremi. La marcia indietro, però, si fa sempre più difficile.
<+RIPRODUZ_RIS>

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: