giovedì 7 gennaio 2021
Il Niger, l’Uganda i campi profughi del Mozambico. Il racconto e le attese per quello che è un "vecchio" anno nuovo da parte di religiosi e religiose
Il Niger, l’Uganda i campi profughi del Mozambico Parlano religiosi e religiose. Tra sofferenze e povertà non manca mai la speranza, perché «il dolore non è mai compatto, lascia sempre intravedere una via d’uscita»

Il Niger, l’Uganda i campi profughi del Mozambico Parlano religiosi e religiose. Tra sofferenze e povertà non manca mai la speranza, perché «il dolore non è mai compatto, lascia sempre intravedere una via d’uscita»

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Nel Niger alle prese con l’harmattan, il vento del deserto che soffia dal Sahara al Golfo di Guinea, l’inverno è caldo e porta polvere. Di giorno le temperature arrivano fino a 35 gradi, di sera invece scendono drasticamente a dieci gradi. «Un’escursione termica molto elevata che provoca malanni di stagione. Siamo però abbastanza al riparo dal Covid. In compenso la malaria colpisce ancora più di prima, ed è sempre pericolosa nel Sahel». Di malaria si muore ancora e i vaccini non ci sono. Sebbene in Malawi e Ghana sia iniziata la sperimentazione. A raccontare la vita nigerina è padre Mauro Armanino, storico missionario Sma (Società missioni africane) a Niamey. «Per via delle misure di sicurezza anti-terrorismo imposte, non posso uscire dalla città senza una scorta e perciò rimarrò dentro: vado ad assistere spiritualmente i carcerati della prigione di Niamey in questo periodo di festività», spiega.

Il Niger dai labili confini è uno Stato che quasi non esiste: politicamente utile all’Europa (ossessionata dai migranti) per il controllo delle frontiere, è un colabrodo interno. Sanità, istruzione e cultura sono chimere. Guidato ancora per poco da Mahamadou Issoufou – che esce di scena, ma sostiene Mohamed Bazoum, al ballottaggio il 20 febbraio prossimo con il candidato dell’opposizione Mahamane Ousmane – è tutto fuorché un Paese libero e pacificato. Il terrorismo continua a mietere vittime nei villaggi attorno al lago Ciad, al confine con Camerun e Nigeria. La povertà è come le sabbie mobili: uccide lentamente e senza vie di scampo. I bambini muoiono per malnutrizione e gli adulti si ammalano per “insicurezza alimentare”. Ossia: mangiano poco, male o per nulla.

Dai campi profughi del Mozambico arrivano altre voci missionarie: le cose, in questo inizio di nuovo anno, vanno esattamente come negli anni precedenti, è il leit motiv. Se non peggio. «Percorrendo le stradine del campo profughi di Maratane – racconta Carmelina Telesca, comboniana – ho visto tante bambine sedute per delle ore su una pietra che vendevano frittelle e acqua pulita; del pane, mucchietti di arachidi, e poco altro. Mentre percorrevo i vicoli dicevo: Signore, quanti tuoi figli hanno bisogno di un pezzo di pane? Di dignità! Di avere una vita umana piena? L’umanità è la tua opera più grande, ma qui è ferita». Suor Carmelina sa di cosa hanno bisogno le mamme, ricorda tutti i nomi dei figli, e quelli dei mariti; conosce disagi, gioie e situazioni impossibili. Originaria di Potenza, ha trascorso 20 anni in Repubblica Democratica del Congo e altrettanti in Mozambico. Il suo italiano dall’accento lucano è fortemente contaminato dal portoghese.

Proseguendo nell’excursus missionario andiamo in Uganda, dove la vita scorre sempre all’insegna dell’instabilità. La bellezza si nasconde però nelle pieghe della sofferenza. «Ora mi trovo a Moroto, nel Karamoja, la settimana scorsa ero a Kampala – racconta suor Fernanda Cristinelli, missionaria comboniana – e abbiamo fatto una bella festa per i bambini del nostro centro, bambini “trafficati”, venduti e costretti all’accattonaggio. Hanno cantato dei canti natalizi, hanno ricevuto doni, c’erano persone della comunità Karimojon. Per questi piccoli è tutto nuovo. Forse per la prima volta nella loro vita si sono percepiti per ciò che sono: semplicemente dei bambini». Una notizia inaspettata e lieta è arrivata anche qui. «Siamo riusciti anche a riportare a casa una bambina sottratta alla famiglia: adesso siamo certi che non tornerà più sulla strada». Essere missionari in Africa significa non disperare mai: perfino quando la realtà di tutti i giorni nega ogni barlume di libertà. Perché «il dolore non è mai compatto ma lascia sempre intravedere vie d’uscita».

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