venerdì 19 ottobre 2018
Mai le relazioni tra la Corea e la Cina sono state così buone – e mai così fitti gli incontri tra il presidente cinese Xi Jinping e Kim. E mai così basse quelle tra Washington e Pechino
Manca lo «scatto» finale. E sul negoziato pesa la diffidenza di Pechino
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Una cosa è certa: la ragnatela di incontri – quello ormai storico tra Donald Trump e Kim Jong-un il 2 giugno scorso a Singapore, i tre faccia a faccia tra lo stesso Kim e Moon Jae-in – non ha prodotto l’accelerazione sperata. E la svolta sulla denuclearizzazione della Penisola coreana rischia di rimanere una promessa. Peggio, un miraggio. Troppi gli attori in campo. Troppo alta la posta in gioco. Troppo ampie le distanze da colmare. E dietro la tela che la diplomazia sta tessendo – e i sorrisi e le strette di mano che la accompagnano – si nascondono tensioni crescenti. A cominciare da quelle inattese tra Usa e Corea del Sud, vale a dire gli attori che, in squadra, stanno giocando la partita con Pyongyang.

L’alleanza mostra qualche sinistro scricchiolio. A Washington poco piace l’intraprendenza del presidente sudcoreano Moon Jae-in. E quelle che vengono percepite come delle fughe in avanti. Come la decisione tra le due Coree di istituire una “no-fly zone” sul confine. La “mossa” rientra nell’accordo militare, siglato durante il summit del mese scorso a Pyongyang, che prevede la fine di «tutti gli atti ostili», la rimozione delle mine e dei posti di guardia all'interno della zona demilitarizzata. È toccato al segretario di Stato Usa, Mike Pompeo mostrare il disappunto statunitense. La “no-fly zone” impedirebbe il volo anche agli aerei americani che, in quella zona, “bazzicano” spesso in occasione delle esercitazioni militari congiunte con Seul. Ma non basta. Il lavoro di sponda che Moon sta offrendo a Kim rischia di “bucare” quell’isolamento che gli Usa continuano a ritenere essenziale per spingere – finalmente – la Corea del Nord a dimettere il proprio arsenale atomico. Alla vigilia del suo viaggio in Europa, in una intervista rilasciata alla “Bbc”, il presidente sudcoreano è sembrato farsi, con troppo slancio, portavoce di Kim. Il Nord, ha detto, intende procedere verso «la completa denuclearizzazione attraverso lo smantellamento delle strutture per lo sviluppo di armi nucleari e di missili» ed eliminando «le armi nucleari e i materiali esistenti». E fin qui ancora nulla di troppo urticante.

Moon, però, ha poi tirato fuori un argomento che scava la distanza con gli Usa: il Nord chiede agli Stati Uniti «misure corrispondenti » al proprio impegno verso la denuclearizzazione. Cosa chiede, in soldoni, Pyongyang? La fine formale della guerra coreana 1950-53, l’apertura di un ufficio di collegamento, l’aiuto umanitario e uno scambio di esperti economici. E, soprattutto, «un graduale allentamento» delle sanzioni economiche che pesano sul regime. Decisamente troppo per gli Usa che, fino ad ora, hanno incassato solo dei “no” dal regime. A cominciare dalla richiesta di avere una “mappa” dettagliata delle strutture e dei materiali nucleari in possesso del Paese. Le sanzioni, ripetono come un mantra gli Usa, non si toccano. Altra zavorra, altro macigno sul negoziato. I rapporti non proprio felici tra Stati Uniti e Cina.

Inutile nasconderlo: la velocità dei progressi sul fronte nucleare dipendono da Pechino. Mai le relazioni tra la Corea e il gigante asiatico sono state così buone – e mai così fitti gli incontri tra il presidente cinese Xi Jinping e Kim. E mai così basse quelle tra Washington e Pechino. I dossier sono tanti. Dalla burrascosa guerra commerciale alle sanzioni per l’acquisto da parte di Pechino di armi dalla Russia, passando per l’incidente sfiorato, solo pochi giorni fa, nelle nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale, quando una nave da guerra cinese si è avvicinata «pericolosamente» a un cacciatorpediniere statunitense, costringendo quest’ultimo a cambiare la sua traiettoria. E, se non bastasse, Trump, il mese scorso, ha accusato la Cina di volersi intromettere nelle elezioni del Congresso del 6 novembre, un’accusa respinta immediatamente da Pechino. Malumori che si saldano all'attrito tra la superpotenze egemone e quella che aspira a prenderne il posto. Nel tentativo di calmare le acque, ieri il segretario alla Difesa Usa, Jim Mattis ha incontrato il ministro della Difesa cinese, Wei Fenghe a Singapore. «Quando due potenze dotate di armi nucleari con interessi regionali, se non globali, si pestano i piedi a vicenda, è bene che lo scontro non si trasformi in qualcosa di catastrofico», ha detto Randall Schriver, un membro dello staff del Pentagono. Parole non proprio rassicuranti. Nessuna dichiarazione pubblica è stata fatta da Mattis e Wei, cosa che non consente di essere troppo ottimisti.

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