sabato 8 gennaio 2011
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Oltre alle questioni del terrorismo islamico, che periodicamente salgono agli onori della cronaca internazionale, gli algerini devono affrontare altri pressanti problemi. Anzitutto le condizioni di vita (l’acqua, l’alloggio), la disoccupazione che tocca il 30 per cento della popolazione attiva. Una questione quanto mai grave se si considera che non esiste più, come un tempo, la valvola di sfogo dell’emigrazione in Europa. Il punto è che la fragile economia algerina si fonda sull’export petrolifero, che nel 2009, a causa della crisi economica mondiale, ha conosciuto una diminuzione del 45 per cento delle entrate. Oggi esiste un salario minimo garantito di 150mila dinari (150 euro) al mese, ma alcuni sindacati fanno notare che il minimo vitale per una famiglia di 5 persone è di circa 40mila dinari. Nell’estate di due anni fa le «rivolte per il pane» avevano messo in subbuglio anche Egitto, Tunisia e Marocco: provocando decine di vittime e interventi dei governi per calmierare i prezzi giunti ai livelli odierni. Rispetto all’Occidente, dove il prezzo degli alimentari pesa tra il 10 e il 20 per cento del reddito delle famiglie, in Tunisia si sale al 60-90 per cento. In Marocco ci sono state proteste contro il carovita, nonostante in questo Paese esista una «cassa di compensazione» statale che permette di attenuare gli effetti dell’aumento dei prezzi mondiali. Come in altri Paesi del Nord Africa, le proteste sono generalmente cavalcate dai movimenti islamici che fanno notare come quasi tutti i settori che nell’ultimo decennio hanno beneficiato di forti investimenti – autostrade, pesca, telecomunicazioni, ferrovie – risultano interessati da fenomeni di malversazione, sovrafatturazione, sottrazione di fondi. «I politici sono più interessati ai propri vantaggi economici che ai nostri problemi», si sente dire per le strade di Algeri. «Essere deputati – aggiungono – significa avere uno stipendio mensile di 300mila dinari, un alloggio nella capitale e la possibilità di fare business». In Egitto è molto evidente il controllo esercitato dai Fratelli musulmani sulle associazioni di categoria (dagli ingegneri ai medici, dai farmacisti sino a una fortissima presenza tra gli avvocati), ma anche all’interno del mondo del lavoro in generale. Si parla di ruoli importanti della Fratellanza in ben 1.700 sindacati locali su 2.200. Un’altra storia, invece, la struttura centralizzata del sindacato, controllato quasi completamente dal partito del presidente Hosni Mubarak.
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