mercoledì 3 aprile 2013
​Secondo le Nazioni Unite, i traffici illeciti garantiscono ai cartelli criminali un introito annuo tra i 170 e i 320 milioni di dollari. In testa il Myanmar e l’Africa subsahariana
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C’è una nicchia di commercio molto opulenta che sfida tutti i vincoli giuridici e porrà seri limiti anche al nuovo trattato dell’Onu sulle armi convenzionali. È il mercato nero dell’armamento, in cui gli affari non scarseggiano mai: secondo le Nazioni Unite, trafficare armi garantisce ai cartelli criminali un reddito annuo di 170-320 milioni di dollari. Ma la cifra è ampiamente sottostimata, perché il fatturato complessivo ammonta ad almeno 5 miliardi di dollari. Le direttrici principali di traffico riguardano l’Asia sudorientale, con il Myanmar in testa, l’Africa subsahariana e il Vicino Oriente. A trarne profitto non sono solo i mediatori, ma anche le società di trasporto, i mercanti di materie prime preziose, gli intermediari finanziari e quelli bancari. E i principali punti di transito del commercio internazionale, come Dubai, Singapore e la Malesia, pullulano di un gran numero di transazioni sospette. 
Il mercato nero dell’armamento è una galassia in cui orbitano molteplici interessi: criminalità organizzata, società off-shore, servizi logistici, funzionari conniventi, personale militare deviato e forniture coperte. I trasferimenti illegali di armi russe valgono 1/5 delle commesse ufficiali: parliamo del secondo esportatore mondiale di armamenti che, nel 2012, ha venduto sistemi per 15 miliardi di dollari, anche verso Paesi sotto embargo. La Cina segue, rifornendo regimi impresentabili: dai cingalesi, ai nepalesi, passando per lo Zimbabwe. L’Africa rappresenta ormai il 13% dell’export militare cinese, molto opaco in tutte le direttrici. Il governo non fornisce dati ufficiali, ma «un buon numero di scambi recenti indica che Pechino è diventato un importante fornitore verso un numero crescente di Paesi. Ha buoni prodotti a basso costo», sottolinea Paul Holtom, direttore del programma sui Trasferimenti di armi al Sipri di Stoccolma.
Munizioni fabbricate in Cina, Russia, Stati Uniti e Grecia sono state ripetutamente rinvenute nelle mani dei ribelli congolesi dell’Ituri, nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Nonostante la missione internazionale, nel Paese circolano ancora più armi da fuoco (27mila) che ribelli (23mila).
Finite le guerre jugoslave, 8 milioni di armi leggere sono rimasti nei magazzini della disciolta Federazione. Lanciarazzi e fucili d’assalto hanno varcato le frontiere, dirette in Libano e in Siria. Forniture di armi croate sono finite di recente nelle mani dei ribelli siriani, grazie ai finanziamenti dell’intelligence saudita, ai cargo giordani e al beneplacito della Cia. Le immagini parlano chiaro: sistemi controcarro, cannoni senza rinculo e lanciagranate croato-russi sono stati visti a Deraa, a Damasco e ad Aleppo. Missili antiaerei cinesi (FN-6) sono entrati in Siria attraverso i canali del contrabbando al confine con la Turchia, forse rivenduti da Paesi terzi. 
Anche le organizzazioni terroristiche riescono a movimentare disponibilità finanziarie e armamenti, attraverso i circuiti bancari informali (alternative remittance systems) sviluppatisi storicamente in Asia e in Africa e sovrappostisi ai circuiti ufficiali. ​
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