mercoledì 23 marzo 2011
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L’intervento militare internazionale autorizzato venerdì notte dalla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non è certo il primo nel suo genere. E le modalità, condivise o contestate dalle cancellerie mondiali e dalle opinioni pubbliche, presentano somiglianze e differenze con altre operazioni condotte negli ultimi decenni. Soprattutto dal punto di vista del diritto e della legittimità. Alcuni interventi avevano lo scopo – dichiarato – di fermare genocidi o massacri di minoranze deboli, altri di impedire a tiranni pericolosi di condurre azioni ostili nei confronti di altri Paesi, altri ancora di ristabilire la legalità internazionale violata. Alcuni furono iniziativa di un gruppo di nazioni – quasi sempre occidentali, capitanate dagli Stati Uniti – cui seguì, nella fase successiva alla guerra vera e propria, una "legittimazione" dell’Onu per la fase della pacificazione e della ricostruzione. In altre occasioni, invece, la comunità internazionale, o almeno una sua parte, trovò l’accordo al Palazzo di Vetro di New York per fare partire subito un intervento sotto le bandiere delle Nazioni Unite. Non sempre i risultati sono stati all’altezza delle aspettative. Alcune missioni sono ancora in corso. La speranza è che quella libica sia tra le più efficaci e meno cruente.


Bosnia, protezione di 39 Paesi. Ma non si riuscì a fermare le stragi
Nel 1992, dopo la proclamazione dell’Indipendenza da parte della Bosnia-Erzegovina, Sarajevo e il resto del Paese vengono investiti drammaticamente dai venti di guerra legati al disfacimento della Jugoslavia e alla recrudescenza dei nazionalismi, in particolare quello serbo. Nel febbraio 1992, viene creata l’Unprofor (con la risoluzione 743), la Forza di protezione delle Nazioni Unite che resterà operativa fino al marzo 1995, contando alla fine circa 39 mila uomini dislocati su un’area molto vasta. Fra i 39 Paesi coinvolti, anche l’Italia. Il mandato sarà più volte allargato e gli effettivi rafforzati, per tentare di offrire una risposta al precipitare degli eventi. Fra le missioni, vi sarà ad esempio anche quella di proteggere l’aeroporto di Sarajevo per permettere la distribuzione degli aiuti umanitari. O ancora il controllo del rispetto della no fly zone in Bosnia-Erzegovina. L’Unprofor non è riuscita a contenere le violenze e gli eccidi. Nel dicembre 1995, le truppe saranno accorpate all’Ifor della Nato, incaricata di far rispettare gli Accordi di Dayton.


Bombardamenti massicci sulla Serbia per salvare il KosovoPer forzare la fine della guerra legata allo statuto della regione autonoma serba del Kosovo, scoppiata nel 1996, la Nato decide d’intervenire nel 1999 contro la Serbia, opposta ai separatisti di lingua albanese dell’Uck. Le operazioni perlopiù aeree si svolgeranno senza un mandato dell’Onu.Concedendo in particolare l’uso dello spazio aereo, l’Italia ha svolto un ruolo determinante nell’offensiva. Fondato su bombardamenti intensivi di obiettivi serbi, l’intervento Nato ha ampiamente utilizzato le basi aeree italiane, in particolare quella di Aviano. Diverse drammatiche "sbavature" ai danni di civili e l’innesco d’interminabili esodi di rifugiati hanno contribuito all’aspro clima di polemiche attorno all’offensiva. A livello politico, è stato raggiunto l’obiettivo di piegare la Serbia, costretta a ritirare le proprie truppe dal Kosovo. Sarà in seguito instaurato un protettorato internazionale sul Kosovo, garantito dalla missione Kfor, questa volta frutto di un accordo presso il Consiglio di sicurezza dell’Onu, raggiunto con la partecipazione di Cina e Russia.
Interventi decisivi per garantire l’indipendenza di Timor EstLa marcia di Timor Est per l’Indipendenza contro l’annessione militare subita da parte dell’Indonesia rappresenta un chiaro esempio in cui l’intervento della comunità internazionale sotto l’egida dell’Onu si è rivelato decisivo, nonostante le ombre residue del presente.Dal giugno all’ottobre 1999, la missione Unamet permette lo svolgimento di un referendum di autodeterminazione. La larga vittoria degli indipendentisti scatena una nuova ondata di violenze a cui la comunità internazionale risponde rapidamente con una missione di peacekeeping: l’Untaet, ovvero l’Amministrazione transitoria Onu di Timor Est, che resterà attiva fino alla proclamazione dell’Indipendenza nel maggio 2002.Fra i numerosi Paesi che hanno fornito militari e poliziotti, per un totale di oltre 10mila effettivi, figura anche l’Italia, con 270 paracadutisti della Folgore. Le Nazioni Unite continuano ad accompagnare i passi del nuovo fragile Stato, ancora attraversato negli ultimi anni da tensione e violenze.
Mandato rispettato: l’Iraq costretto al ritiro dal KuwaitLa coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti che nel gennaio 2001 lanciò la "Guerra del Golfo", contro il regime iracheno di Saddam Hussein colpevole di aver invaso il Kuwait, ha agito sotto l’egida dell’Onu in virtù di diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Prima vasta offensiva multilaterale del mondo post-Guerra fredda, così come la più imponente dalla fine della Seconda guerra mondiale, impegnò oltre 900 mila effettivi di 34 Paesi, di cui più di un terzo americani. L’Italia partecipò inviando truppe e velivoli da combattimento. Colpiti dalla contraerei a bordo del loro Tornado, il pilota Gianmarco Bellini e Maurizio Cocciolone (navigatore) saranno fatti prigionieri. L’offensiva internazionale costringerà l’Iraq al ritiro delle proprie truppe dal Kuwait. Ma il mandato dell’Onu venne rispettato e le truppe della coalizione evitarono di puntare verso il cuore del potere iracheno per rovesciare il regime. Quest’ultimo dovette ufficialmente rinunciare alle armi di distruzione di massa e ai missili a media-lunga gittata.
La guerra all’Iraq scatenata da 4 Paesi e il difficile dopoCaso esemplare di un’offensiva sprovvista di un mandato dell’Onu, la Guerra in Iraq del 2003 ha spaccato anche per questo in modo duraturo la diplomazia e l’opinione pubblica internazionali. Accanto agli Stati Uniti, si sono schierati in primo luogo Gran Bretagna, Australia e Polonia. Nonostante l’agevole successo bellico della coalizione e l’obiettivo raggiunto della destituzione del regime sanguinario di Saddam Hussein, le conseguenze sul campo dell’offensiva restano al centro di numerose controversie irrisolte. Il principale argomento impiegato da Washington per giustificare la necessità del conflitto, ovvero la presenza presunta di nuove armi irachene di distruzioni di massa, non fece breccia presso il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Soprattutto perché contraddetto dai rapporti Blix ed El-Baradei. Da un punto di vista diplomatico, decisiva si è rivelata la risolutezza di Parigi nell’opporsi alla prospettiva di un mandato Onu interventista. Successivamente alla caduta di Saddam, la risoluzione Onu 1511 dell’ottobre 2003 (cui seguirono altre) avviava una partecipazione internazionale sotto ombrello Onu alla ricostruzione politica ed economica dell’Iraq e al mantenimento della sicurezza. Si concretizzò così la partecipazione italiana.
I fallimenti delle Nazioni Unite nella regione dei Grandi LaghiNella martoriata regione africana dei Grandi Laghi, gli interventi della comunità internazionale posti sotto l’egida dell’Onu hanno alimentato profonde controversie e si sono finora spesso rivelati tardivi e inefficaci nel contenimento delle successive ondate di violenza.Un caso emblematico è rappresentato dal genocidio in Ruanda e dall’impotenza mostrata al suo cospetto dalla Missione di assistenza Onu per il Ruanda (Unamir), composta inizialmente da appena 2.500 militari e dispiegata nell’ottobre 1993 proprio per fungere da deterrente nel quadro delle tensioni fra comunità hutu e tutsi. Le quali esploderanno con conseguenze apocalittiche nella primavera successiva. Questo fallimento peserà a lungo sull’immagine dei dispositivi internazionali in Africa.Dispiegata per oltre un decennio fino al giugno 2010 soprattutto nell’Est congolese, la Missione dell’Onu in Congo (Monuc) si è distinta per l’importante numero di effettivi, oltre 20mila, ma non per i risultati. I drammi bellici e umanitari sono proseguiti.
Ridare speranza alla Somalia contro la guerra per bandeNel gennaio 1991, il generale Siad Barre, storico uomo forte a Mogadiscio, fugge lasciando la Somalia in preda ai conflitti fra i signori della guerra e a una carestia dagli effetti devastanti. Nel novembre 1992, Washington chiede all’Onu di poter intervenire. Con l’avallo del Consiglio di sicurezza (risoluzione 794), viene lanciata già il mese dopo l’operazione multilaterale Restore hope (Unitaf, per l’Onu), sotto comando autonomo statunitense, che conterà fino a 40mila uomini, fra cui 30mila americani e i restanti provenienti da 26 Paesi occidentali, asiatici e africani. L’obiettivo è imporre e mantenere il cessate il fuoco per favorire l’arrivo degli aiuti umanitari. L’Italia schiera 5 mezzi navali, fra cui 2 da sbarco con gli uomini del Battaglione San Marco, operativi nei pressi di Mogadiscio e Balad.Interrotta già nel maggio 2003, l’operazione si rivela un fallimento e lascerà il Paese nel caos. L’Italia piangerà le vittime della "Battaglia del pastificio", accanto alla crocerossina Maria Cristina Luinetti, la reporter Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin.
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