sabato 20 luglio 2013
​Nel 2012 ha stabilito il record di arrivi con un milione di lavoratori in più. Il tasso di disoccupazione «marcia» al 6,9% con punte vicino allo zero in Baviera. Per reggere questo ritmo, la Germania ha bisogno di più braccia e cervelli: entro il 2050 serviranno trenta milioni di persone. Il flusso dall’Italia ha registrato un aumento del 40%. Ma esplode il precariato (Paolo Lambruschi)
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Divenuti in fretta polo d’attrazione come mezzo secolo fa per tutti gli europei – italiani in prima fila – i te­deschi sono i primi a vivere le contraddi­zioni dell’immigrazione che scuotono il Vecchio mondo. Anche se lo Stato sta lan­ciando nelle città buone pratiche di acco­glienza per attrarre manodopera qualifica­ta necessaria per continuare a crescere, la gente fatica ad accettare la multietnicità. L’altro ieri gli italiani, ieri i turchi, oggi la patente di emarginati va ai neocomunitari slavi, cui faticano a concedere gli stessi di­ritti di assistenza sociale degli altri cittadi­ni Ue. Perché bulgari e romeni sono sino­nimo di rom e con loro non si vuole condi­videre il generoso welfare tedesco. La Germania nel 2012 ha stabilito il record di arrivi dal 1995 con un milione di immi­grati in più. Il flusso dall’Italia, secondo l’Uf­ficio statistico federale, l’anno scorso ha fat­to registrare un aumento del 40% e in ter­mini assoluti il Belpaese è lo Stato europeo meridionale che, causa crisi, lo scorso an­no ha fornito più cittadini ai land a disoc­cupazione zero. Il tasso di disoccupazione in Germania marcia al 6,9% con punte vi­cino allo zero in Baviera. In particolare la di­soccupazione giovanile in media è inferio­re all’8 per cento, la più bassa dei 28 Paesi dell’Ue. Per reggere questo ritmo la Ger­mania che ha asfaltato la crisi ha bisogno di attrarre sempre più braccia e cervelli. Se­condo il ministro federale del lavoro della Cdu Ursula Von der Leyden, entro il 2050 serviranno 30 milioni di persone per com­pensare il calo demografico. Entro il 2020, almeno cinque milioni. Cosa li aspetta? Non un eldorado, perché le chiavi del suc­cesso tedesco sono l’immigrazione gesti­ta per attrarre manodopera qualificata af­fiancata, però, dalla flessibilità lavorativa che l’Europa del sud mal digerisce per i co­sti umani (qui compensati dal sistema so­ciale più efficiente della Ue) e che i tede­schi vorrebbero indicarci come modello. L’altra faccia del boom sono infatti i micro job, precariato part time introdotto dalla riforma del welfare realizzata dal governo rosse verde di Gerard Schroeder 10 anni fa, quando la Germania dieci anni dopo la riunificazione arrancava. Come hanno fat­to a risollevarsi? Stefano Casertano, brillante politologo, per anni docente a Berlino e oggi passato dal­l’altra parte della barricata come corri­spondente da Berlino dell’Inkiesta ha spie­gato i segreti dello sviluppo tedesco nell’ebook “Germania Copia e incolla”. «Anzitutto – spiega – quella tedesca è una classe politica capace di esprimere due sta­tisti del calibro di Helmut Kohl e Gerhard Schroeder con visioni di lungo periodo. Il primo è stato il cancelliere della riunifica­zione e poi ha perso le elezioni del 1998 per­ché il Paese franava sotto i debiti; il secon­do a capo della coalizione rosso verde ha va­rato una riforma sociale, l’agenda 2010, contrastata da parte della sinistra dell’Spd e del sindacato e che gli costò le elezioni. Ma la riunificazione e più ancora le riforme so­ciali dello scorso decennio, che hanno au­mentato la partecipazione al mercato del la­voro, sono i segreti del boom germanico». Per la quasi totalità degli osservatori, l’al­tro asso nella manica è il sistema duale di formazione professionale. Qui si studia e lavora contemporaneamente con il con­tributo del datore di lavoro. Oggi il model­lo tedesco si sta esportando con accordi di cooperazione con sei Paesi dell’Ue del Sud, le aziende tedesche fanno da apripista nel­la formazione pratica del personale nelle loro società affiliate all’estero e i land fan­no ponti d’oro alla manodopera che viene a lavorare e a studiare in una delle 1300 imprese tedesche all’avanguardia, perlo­più di medie dimensioni. Non c’è solo il si­stema duale da copiare, però. La ricetta della maggioranza e delle élite economiche per la crescita dell’Ue anche nelle aree me­diterranee in recessione è ben sintetizza­ta da Matthias Schaefer, economista della Fondazione Adenauer. «A fine anno la crescita tedesca sarà più al­ta del resto dell’euro zona. L’economia in­fatti si basa sull’export e la crescita è soste­nuta dalla costante domanda di beni pro­dotti in Germania da Paesi emergenti. An­che la ripresa che si intravede negli Stati U­niti alimenta la domanda di beni tedeschi. Ma per sostenere la crescita la Germania ha bisogno dei migranti». Quanti? «Vanno sostituiti 5 milioni di lavoratori tra i 16 e i 66 anni per il calo demografico e i pensio­namenti. La gestione dell’immigrazione è uno dei sistemi più efficaci, perciò la Ger­mania continuerà nei prossimi anni ad at­trarre manodopera qualificata. Del resto 15 milioni di tedeschi sono nati all’estero o fi­gli di immigrati, siamo pronti per farlo». Altri sistemi per Schaefer sono l’allunga­mento dell’età pensionabile a 67 anni e il miglioramento della formazione scolastica per consentire a più studenti di specializ­zarsi. In generale per la crescita la Germa­nia e l’intera Ue dovrebbero «ispirarsi a due criteri: la gestione dell’immigrazione, fa­vorendola per colmare il gap demografico e in seconda battuta la flessibilizzazione del mercato del lavoro per attuare una forma di resilienza alle sfide del mercato globale. Anche ai Paesi mediterranei servono que­ste riforme per riprendersi. Noi abbiamo bisognosi un’Europa stabile per crescere, ma senza riforme non è possibile». La Germania, leader europeo, riproduce i timori dei Paesi fondatori dell’Ue verso gli stranieri. Ne ha bisogno e ne ha paura. Dal successo della cultura dell’accoglienza po­trebbe derivare un cambio di rotta conti­nentale sull’immigrazione per superare u­no dei problemi sociali più grossi di inizio secolo. E dalla vittoria elettorale della Merkel po­trebbe arrivare una ulteriore e forte spinta ai governi della Ue meridionale alle rifor­me in chiave di flessibilità, intese come u­nico strumento per uscire dall’“abbraccio” mortale della crisi economica.
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