martedì 26 gennaio 2021
Parla il vice-presidente esecutivo dell'Istituto per gli studi di politica internazionale: "Il nuovo presidente manterrà gli Accordi di Abramo, ma dovrà portare pace nella pace"
Il presidente Joe Biden con il Segretario alla Difesa Llyod Austin nello Studio Ovale della Casa Bianca

Il presidente Joe Biden con il Segretario alla Difesa Llyod Austin nello Studio Ovale della Casa Bianca - (Foto Afp)

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«Cautela» è la parola che, a giudicare dalle primissime mosse, potrebbe guidare l’azione del neo-presidente americano Joe Biden sul fronte mediorientale. Lo rileva Paolo Magri, vice-presidente esecutivo dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) e docente di Relazioni Internazionali all’Università Bocconi.

La cornice degli Accordi di Abramo costruita dall’Amministrazione Trump nel Golfo, se riempita di contenuti, può rappresentare una speranza per il quadro regionale. Ritiene che questo progetto sia messo in forse dalla svolta alla Casa Bianca?

È certamente un’iniziativa costruttiva della presidenza Trump perché abbozza una palese convivenza fra Paesi arabi e Israele mai vista in 70 anni. E dubito che Biden voglia privarsene in una regione dove i segnali di pace sono merce scarsa. Non possiamo però nasconderci che la leva che ha portato agli accordi è costituita, più che dalla volontà di risolvere la questione palestinese, dall’ulteriore isolamento dell’Iran. E lo scontro Iran-Arabia Saudita è la vera miccia che può fare esplodere oggi la regione. La sfida per Biden – e per tutti – è far sì che “la pace porti alla pace”.

Antony Blinken, l’uomo scelto da Biden come nuovo Segretario di Stato, ha confermato l’intenzione di voler ricucire con l’Iran. Peraltro, tornano alla Casa Bianca molti degli architetti dell’accordo Jcpoa firmato nel 2015. Teheran non ha mai fatto mistero di avere aspettative nei confronti della nuova Amministrazione americana. Quali spazi di manovra ci sono?

Per Biden – e per il suo team obamiano – il ritorno all’accordo sul nucleare è essenziale nel profilare la sua presidenza quanto fu per Trump l’abbandono dell’accordo stesso. Gli Accordi di Abramo costituiscono innegabilmente una mina vagante lasciata alla nuova Amministrazione: porteranno a una pressione congiunta di Israele e dei Paesi arabi per spingere il nuovo governo Usa ad alzare la posta, con maggiori richieste a Teheran, mentre il governo iraniano, scottato per le promesse non mantenute e con il voto presidenziale che incombe, si irrigidirà certamente su quanto negoziato, chiedendo a sua volta maggiori certezze che in passato.

A partire da Maggio ci sarà una lunga tornata di elezioni in Palestina. Congelati i rapporti con Trump, ci si aspetta che i palestinesi tornino a rivolgersi con maggior fiducia a Biden. Ritiene che da questo voto possa emergere una nuova leadership capace di mettere sul tavolo proposte costruttive?

Non è facile essere ottimisti. Oltre alle delusioni del passato, non possiamo tralasciare che gli Accordi di Abramo sono stati visti dai Palestinesi come una Oslo riscritta pesantemente a favore di Israele, con la promessa di 50 miliardi in cambio di una rinuncia a molte delle aspettative di sempre. Pensare che ciò faccia emergere dal voto una nuova leadership costruttiva mi pare difficile.

Anche i rapporti con la Turchia hanno fatto registrare forti tensioni. Il presidente Erdogan sta allargando la sua sfera di influenza. Ritiene che Biden si incaricherà di questo dossier? Oppure, come hanno rilevato diversi analisti, starà un passo indietro, concentrando la sua azione sui temi internazionali più urgenti e soprattutto su quelli interni?

Credo sia fuori discussione che la priorità della nuova Amministrazione sarà l’agenda domestica: come per Obama con la crisi finanziaria, come per Trump con America First. Ancor di più, direi, vista la gravità delle ferite interne. Ciò detto, credo però che Erdogan non godrà con Biden dello spazio di manovra, del “via libera” implicito o esplico di cui ha goduto con Trump. E la Turchia, alle prese con crescenti difficoltà economiche e sovraesposta su una serie di scacchieri, non potrà sottovalutare il cambio di clima a Washington.


Lo stesso per quanto riguarda altri scenari delicati, come Iraq e Afghanistan. Cosa possiamo aspettarci da Biden?

Una sostanziale continuità con Trump (e Obama). Ovvero il tentativo di mettere fine alle operazioni militari in Medio Oriente, completando possibilmente anche il ritiro da questi Paesi. Biden cercherà però, più di Trump, di facilitare un compromesso politico che assicuri una stabilizzazione di questi Paesi, affinché il ritiro dei soldati Usa non lasci spazio a gruppi estremisti di stampo islamista. È notizia proprio di questi giorni che l’Amministrazione Biden vuole passare in rassegna l’accordo siglato lo scorso anno da Trump con i taleban, che prevede il ritiro totale dei soldati Usa dal Paese entro questo aprile: il sospetto di Biden è che, spinto dall’“effetto annuncio” del ritiro durante le presidenziali Usa, Trump abbia ceduto eccessivamente alla richieste dei taleban, e che all’indomani del ritiro americano questi possano riprendere il controllo su tutto il Paese, ostacolando il fragile processo politico guidato dal governo afghano.

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