giovedì 28 aprile 2016
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Di per sé il prodotto Trump ha dimostrato di sapersi vendere abbastanza da solo. Senza grandi intermediazioni e, soprattutto, concessioni “presidenziali” al politically correct. Seppure da «House of Cards» in poi tutti abbiano capito che in una campagna elettorale americana niente è lasciato al caso, Trump è un grande improvvisatore. Di più: è il candidato che si trova più a suo agio nei comizi, quello che non disdegna l’insulto all’avversario, pur di attirare l’attenzione dei media e alzare il livello dello scontro. Ecco, un candidato così, ottenuta la nomination, può davvero vincere a novembre contro Hillary Clinton? Non dovrebbe invece abbandonare i toni corrosivi, spostarsi più al centro per conquistare gli indipendenti, attenuare gli attacchi? Diventare, insomma, un candidato finalmente “presidenziale”? Ci ha provato lo stratega repubblicano di lungo corso Paul Manafort, entrato un mese fa nella squadra del “re del mattone”, a invertire la rotta. Ma l’unico risultato è quello di aver scatenato una pericolosa lotta intestina tra le diverse fazioni del “team Trump”: una guidata dallo stesso Manafort, l’altra che fa riferimento a Corey Lewandowski, il manager della campagna di Trump sin dagli esordi, stile da mastino e un’accusa di aggressione da parte di una cronista. «Trump aveva bisogno dell’esperienza di qualcuno che sa come trattare con i delegati e con la convention, ecco perché ha chia- mato Manafort», spiega una fonte vicina alla campagna. Una squadra a due teste, dunque, con Lewandowski organizzatore degli eventi della campagna e capo dello staff e Manafort alla stregua di un responsabile dei rapporti con il partito e le assemblee locali. Tutto per evitare di farsi “scippare” la nomination alla convention di Cleveland e per impostare una campagna vincente per le presidenziali. La divisione dei poteri, però, ha portato al caos, soprattutto nel momento in cui Manafort ha provato a prendere le redini della campagna e a “modellare” Trump. Il tycoon sta faticando ad aggiungere le tattiche della politica tradizionale all’approccio da culto della personalità che lo ha aiutato a scalare le gerarchie fino a diventare il candidato in pectore per la nomination. Ha accettato di fare pratica con il “gobbo elettronico” per evitare i discorsi a braccio – nei quali non rinuncia all’attacco frontale verso i rivali –, ha aperto il portafogli per inondare di spot la California, ha annunciato una serie di discorsi politici “robusti”, tra cui quello di ieri sulla politica estera. Durante un discorso si era anche riferito al rivale Ted Cruz chiamandolo «senatore», invece di usare il solito «Lyin’ Ted», «Ted il bugiardo». Il magnate si è però infuriato quando ha letto sui giornali di un audio registrato durante un incontro tra Manafort e il Comitato nazionale repubblicano: in quella sede lo stratega lasciava intendere che i toni esagerati fossero necessari solo per «proiettare un’immagine» di Trump utile a conquistare voti. «Quell’immagine cambierà», sottolineava Manafort, alludendo appunto a una svolta “presidenziale” del magnate una volta ottenuta la nomination. Trump, già indispettito perché lo stratega ha portato nella squadra molti lobbisti suoi ex colleghi, ha riaffidato le chiavi finanziarie della campagna a Lewandowski. Ma, soprattutto, ha sottolineato che non cambierà il suo approccio. «Se fossi stato “presidenziale” vi garantisco che a quest’ora non sarei qui», ha detto sabato scorso in un comizio in Connecticut. Lunedì, in Pennsylvania, ha definito il rivale John Kasich «un maiale» per la sua propensione a mangiare troppo mentre Cruz, dal «senatore» dei giorni scorsi, è tornato ad essere «un idiota». E Hillary? «L’unica carta che può giocare è quella di essere donna, non ha nient’altro ». Toni sessisti. Il Trump “presidenzia-le”, evidentemente, è tutto qui. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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