martedì 31 marzo 2020
Si muovono a piedi per il blocco dei trasporti, accalcandosi ai confini dei diversi Stati sigillati dai provvedimenti di contenimento E la malattia potrebbe «correre» con loro
Gli indiani si stanno ammassando nelle stazioni di bus e treni per tornare nei villaggi

Gli indiani si stanno ammassando nelle stazioni di bus e treni per tornare nei villaggi - Reuters

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Un esodo forse senza precedenti dall’indipendenza sta attraversando l’India. Milioni di migranti stanno cercando di raggiungere in questi giorni i luoghi di provenienza, sovente lontani centinaia di chilometri. Lo fanno perlopiù a piedi per il blocco dei trasporti e delle vie di comunicazione se non per i generi di prima necessità; accalcandosi ai confini dei diversi Stati sigillati dai provvedimenti di contenimento dell’epidemia, con il rischio di abusi, diffusione del contagio e disordini. Gli autobus resi disponibili sono presi d’assalto e il tentativo di operare sui passeggeri in partenza controlli sanitari è problematico. Individuati e bloccati diversi trasporti di persone su camion carichi all’inverosimile.

L’India si è chiusa ma se il coprifuoco comincia a presentare falle, sia nell’isolamento sociale, sia nelle filiere essenziali al momento non vi sono particolari aree di crisi. Merito anche della gestione dell’approvvigionamento di beni essenziali, a partire dagli alimentari, e dei provvedimenti per garantire il cibo necessario a 800 milioni di indiani considerati più a rischio per la crisi in corso. Tuttavia, nel tentativo di limitare la diffusione del coronavirus, con un bilancio fino a ieri di 1.071 casi e 29 decessi e per prevenire l’assedio a un sistema sanitario precario, la “linea dura” imposta mercoledì scorso e per tre settimane dal premier Narendra Modi ha forse sottostimato la reazione dell’im- mensa popolazione migrante all’estero e all’interno. Si calcola in 139 milioni, il 10 per cento della popolazione, quella che per necessità vive lontana dai luoghi d’origine nei 36 vari Stati e Territori in cui è divisa amministrativamente l’India e proprio i migranti interni costituiscono una parte sostanziosa dei 450 milioni di indiani che si stima dipendano per la sopravvivenza dal settore informale.

Nel Paese cresce poi la diffidenza nei confronti degli europei, e in particolare degli italiani, accusati di aver portato il virus in India. Molti i turisti che si sono visti rifiutare l’accesso agli alberghi, già prenotati, o sono stati bloccati e messi in quarantena obbligatoria. Un immediato cambio di linea è stata sollecitato dall’opposizione al governo nazionalista.

Domenica, il segretario del Partito del Congresso, Rahul Gandhi, ha chiesto in una lettera a Modi di ripensare il blocco. «È essenziale comprendere che le condizioni dell’India sono uniche. Queste richiedono di prendere misure diverse dal blocco. Il numero dei poveri che vivono alla giornata è semplicemente troppo elevato perché si possano chiudere tutte le attività economiche», ha sottolineato Gandhi. Particolarmente critica la situazione al confine tra il Territorio federale di Delhi e lo Stato di Uttar Pradesh, dopo che il 28 marzo i 200 autobus inviati dal governo di quest’ultimo nella capitale per recuperare i suoi cittadini sono stati presi d’assalto.

L’arcidiocesi di Ranchi, nello Jharkhand, altro Stato a elevato tasso migratorio, ha chiesto alle diocesi del Paese di favorire il rientro. «Sono tempi difficili e mentre viviamo nell’emergenza e cerchiamo di garantire la nostra sicurezza, migliaia di migranti sono bloccati dove si trovano senza sapere dove andare o hanno preso la via di casa con i loro familiari senza un mezzo di trasporto, mezzi finanziari o provviste alimentari», si legge nell’appello firmato dall’arcivescovo Felix Toppo e dall’ausiliare Theodore Mascarenhas. Mentre ovunque in Asia si corre ai ripari per far fronte all’epidemia, le città diventano la prima frontiera della lotta al Covid–19.

Le autorità vietnamite stanno mettendo a punto un piano di isolamento della capitale amministrativa, Hanoi, e di quella economica, Città di Hochiminh. In Indonesia, davanti a 1.414 casi di contagio e 122 decessi in maggioranza nella capitale Giakarta, il presidente Joko Widodo ha sollecitato maggiore severità nell’applicazione delle misure restrittive e maggiore tutela del personale medico. Un problema, quest’ultimo che emerge con gravità nelle Filippine, dove sette dei 78 deceduti finora erano medici, ma molti operatori sanitari sono stati posti in quarantena.

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