lunedì 15 giugno 2020
L'elefantessa uccisa solleva il velo sulle contraddizioni dell'India

Reuters

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La storia è nota ed è di qualche giorno fa. Il caso di una elefantessa incinta nello stato del Kerala ha sollevato indignazione dentro e fuori l’India. Ma se all’esterno la rabbia si è indirizzata verso coloro che le avrebbero messo a disposizione come cibo un ananas imbottito di petardi che, ingerito, le ha devastato la bocca provocandone la morte poche ore dopo, all’interno la sua sorte e la tradizionale ospitalità data a questi animali nei templi indù dell’India meridionale ha attivato una nuova ondata di ostilità verso la comunità islamica. Così, un atto deprecabile su cui polizia e magistratura stanno indagando, viene propagandato dagli estremisti come una sfida alla maggioranza indù e alla sua sensibilità.

Maneka Gandhi, ex ministro per l’Ambiente e tra gli esponenti di punta del nazionalista e filo-induista Bharatiya Janata Party, al potere a livello centrale e in molti degli stati dell’India, ha parlato di un’area, quella di Malappuram, «nota per l’intensa attività criminale, soprattutto rivolta contro gli animali». Il ministro per l’Ambiente in carica, Prakash Javadekar, ha parlato di «un atto contrario alla cultura indiana», riferendosi anch’egli al distretto di Malappuram. «Politici, celebrità e animalisti hanno preso posizione come se il cielo stesse precipitando, ma qual è la verità?», si è chiesto l’ex giudice della Corte Suprema Markandey Katju in un intervento sul settimanale indiano “The Week” e la sua risposta è chiara: «Spesso i raccolti sono distrutti dai cinghiali e quindi in alcune aree del Kerala i contadini utilizzano mortaretti per ucciderli.

Il decesso dell’elefante non è voluta, ma accidentale e comunque non si è verificata nel distretto di Malappuram, ma in quello di Palakkad». Due indicazioni condivise da una parte consistente dell’opinione pubblica per chiarire non solo l’evento, ma anche le sue conseguenze, perché l’insistenza sulla localizzazione segnala una volontà persecutoria verso i musulmani di Malappuram, unico distretto non a maggioranza induista del Kerala. La stessa volontà che in una fase iniziale della pandemia da Covid-19 ha spinto ad accusare organizzazioni islamiche di di diffondere il coronavirus, di perseguire un «coronajihad ». La conferma arriva dallo stesso giudici Katju: «La situazione di crisi attuale potrebbe portare a estese proteste e quindi si cerca una capro espiatorio per ogni problema, come Hitler fece con gli ebrei. In India, questo è ormai per consuetudine la comunità musulmana».

«Dov’è la nostra compassione? È riservata solo agli elefanti del Kerala?», si chiede l’attivista per i diritti umani Ram Puniyani, che ai mass media ha segnalato «l’ovvia ipocrisia del partito di governo», che da un lato propone un’agenda che ha al centro la sacralità delle vacche ma dall’altro tollera una «gestione disastrosa» delle stalle negli Stati dell’India in cui governa. «In un tempo in cui si moltiplicano i linciaggi nel nome della difesa di questi animali – ricorda Puniyani – il Paese resta uno dei maggiori esportatori mondiali di carne bovina».

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