sabato 22 ottobre 2022
Il gesuita Francisco De Roux ha attraversato l’intera crisi del suo Paese, la Colombia: «Ci siamo combattuti per 50 anni. Si può imparare a dire “mai più”»
«Le armi non risolvono nulla, solo la pace può fermare la barbarie»
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«Ogni giorno in più di guerra, è un giorno di ulteriore abbruttimento per la società tutta. I conflitti iniziano come scontri militari ma subito cominciano a “contagiare” l’intera vita di una nazione. I crimini si moltiplicano, i massacri si fanno più efferati. Noi colombiani lo sappiamo bene: ci siamo combattuti per oltre mezzo secolo. Per questo, leviamo la nostra voce per chiedere a Kiev e Mosca di trovare una via per la pace». Francisco De Roux, 79 anni, conosce fin troppo bene la “geografia del dolore” della Colombia trasformata in campo di battaglia dal conflitto civile più lungo d’Occidente. Il gesuita e noto intellettuale ha dedicato la vita a percorrerla, curando le ferite lasciate sul corpo e sullo spirito dei superstiti. Per questo, nessuno si è stupito quando, quattro anni fa, il sacerdote è stato incaricato di presiedere la Commissione per la verità, creato nell’ambito degli accordi di pace tra il governo e le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc) per ricostruire la memoria storica della “Grande guerra”. Un’esperienza paragonabile per portata a quella sudafricana. Con delle caratteristiche, però, originali, come la scelta di costituire 28 “succursali” per andare ad ascoltare le vittime nelle proprie comunità. Il 28 giugno scorso, l’organismo statale, di rango costituzionale, ha presentato il suo rapporto finale. Un lavoro titanico per cui la Commissione è stata selezionata tra i tre finalisti del premio Sakharov 2022. Nelle 900 pagine del documento si susseguono orrori di ogni genere. Eppure, tra le righe, si legge un «messaggio di speranza e di futuro per la nostra nazione lacerata e rotta» Ma anche per il resto del mondo.

Padre Francisco, qual è la lezione che il pianeta e ora l’Europa, di nuovo dilaniata dalla guerra, possono apprendere dalla Colombia?

Che le armi non risolvono nulla. Al contrario, peggiorano lo scenario. Prima o poi si devono lasciare. Più a lungo, però, si sono tenute in mano, più profonde sono le ferite inferte al corpo sociale. E a pagare il prezzo più alto sono i civili, come abbiamo visto in Colombia. Faccio un esempio. Abbiamo avuto 47mila poliziotti e militari morti in combattimento e un analogo numero di caduti fra guerriglieri e paramilitari. Calcoliamo circa 120mila vittime in azione. Per ciascuna di loro, sono stati uccisi otto civili. A questo dobbiamo sommare altri 7,8 milioni di sfollati interni, 120mila scomparsi, 51mila sequestrati. L’altra grande lezione colombiana è, dunque, che il conflitto si accanisce con particolare crudeltà sui più fragili. Lo stiamo vedendo ora in Ucraina. Per questo, spero e prego che si arrivi presto al tavolo dei negoziati. La pace è la sola alternativa alla barbarie.

Che cosa può fare in contesti del genere la comunità internazionale?

Di nuovo, torno al caso della Colombia. Il mio Paese è stato considerato per decenni come una democrazia assediata da un “nemico interno”. Varie nazioni ci hanno “aiutato” inviandoci tecnologia militare, addestratori, armi. Come abbiamo drammaticamente compreso, questo non ha risolto il problema. Lo ha acuito. Come Commissione per la verità abbiamo chiesto e chiediamo al mondo di non aiutare mai più la Colombia a fare e farci la guerra. Vogliamo un esercito al servizio dei cittadini per la pace.

Lei e la Commissione avete messo nero su bianco i crimini del conflitto colombiano. In questo modo non si finisce per fomentare l’odio e il desiderio di vendetta?

Al contrario, ricostruire e conoscere la verità è l’unica via per un’autentica riconciliazione.

Ma è davvero possibile riconciliarsi dopo essersi inflitti a vicenda tanto dolore?

La Colombia dimostra di sì. Abbiamo visto e stiamo vedendo vittime di sofferenze indicibili trovare la forza di perdonare. Di non chiedere vendetta, bensì che mai più si ripetano simili atrocità. Certo, non si può obbligare una vittima a perdonare. Il suo dolore va accolto e ascoltato. Solamente così si aiuta la persona a mettersi in una prospettiva di futuro, trovando la capacità di dire: «Mai più». Ci vuole tempo e pazienza. Ma se sta accadendo in Colombia può avvenire anche altrove. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il gesuita Francisco De Roux ha attraversato l’intera crisi del suo Paese, la Colombia: «Ci siamo combattuti per 50 anni. Si può imparare a dire “mai più”»

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