sabato 7 gennaio 2017
I voti del 2017 possono ridisegnare gli equilibri. Il fantasma dei movimenti xenofobi aleggia sul panorama dell’Unione Europea.
L'assedio dei populismi: per l'Ue anno di insidie
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Un fantasma e una profezia si aggirano per l’Europa. Il fantasma è quello della disunione e della discordia, figlie scellerate di quello spettro che Omero chiamava “xenos” e che ha dato vita ai molteplici populismi, agli euroscetticismi, ai movimenti e ai partiti di esplicita intonazione razzista che fiammeggiano insidiosi sulla carta geopolitica del vecchio continente corrodendone l’originale spirito di solidarietà. La profezia la dobbiamo a Martin Selmayr, potentissimo e altrettanto temuto capo di gabinetto di Jean-Claude Juncker, che per il 2017 prefigura – lo ha scritto in un tweet ormai inconfutabile – «A horror scenario that shows well why it is worth fighting populism» (Uno scenario di orrore che bene illustra perché vale la pena di combattere il populismo). Uomo poco amante delle sfumature, Selmayr dipinge la dilagante protesta mondiale anti-sistema facendo nomi e cognomi, immaginando che il G7 che si terrà a Taormina il 26 e il 27 maggio prossimi potrebbe essere dominato da un quartetto di leader dichiaratamente populisti come Donald Trump, Boris Johnson (ministro degli Esteri della non meno euroscettica Theresa May), Marine Le Pen e – in caso di elezioni anticipate – Beppe Grillo.

Un vaticinio azzardato, fuori misura? Forse. Certamente però il 2017 sarà un anno politicamente decisivo per l’Unione Europea. Quattro appuntamenti elettorali si stagliano fra aprile e ottobre: Olanda, Francia, Germania e Repubblica Ceca andranno alle urne, ovvero tre (ma con l’Italia potrebbero diventare quattro) dei Paesi fondatori affronteranno la prova elettorale probabilmente più insidiosa dalla nascita della Ue. Il fantasma della disunione si era affacciato già lo scorso anno con due inequivocabili risultati refe- rendari. Il primo è stato il voto olandese che ha bocciato con il 61% l’accordo di associazione Ue-Ucraina, il secondo – quello più clamoroso – è stato il referendum sulla Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione, che ha visto il trionfo di Nigel Farage e degli isolazionisti come Boris Johnson e provocato la caduta di David Cameron dando all’Europa uno scossone che ha portato acqua al mulino degli euroscettici e rinnovata fiducia nella possibilità di sovvertire quel processo di integrazione iniziato sessant’anni prima.

Gli olandesi – che già nel 2005 bocciarono insieme ai francesi il referendum sulla Costituzione europea soprattutto nel timore di un’invasione di manodopera polacca a basso prezzo – hanno riconfermato l’ostilità nei confronti di una nuova possibile invasione di immigrati ucraini. Ed è inevitabilmente l’emergenza migranti che Geert Wilders, il leader del Partij voor de Vrijheid, il Partito della Libertà, erede di Pim Fortuyn e campione della destra populista sta cavalcando in vista delle elezioni: «Nel 2015 – tuona quasi quotidianamente – ci sono stati 56.900 richiedenti asilo, il doppio rispetto a quelli del 2014: non possiamo accettarlo». l sondaggi, per quello che possono valere, gli danno ragione e il suo slogan, «Minder, minder, minder marokkanen» (Meno, meno, meno marocchini, che gli è valso una condanna per incitamento alla discriminazione) semina odio. Nella pacifica Olanda cominciano a fare la loro comparsa pattuglie anti-migranti. «Da 12 deputati – dice Filip Joos, politologo del quotidianoDe Standaard – il Pvv passerebbe a 35, diventando così il primo partito olandese. Il rischio è molto concreto ».


Anche a Praga rullano i tamburi del populismo: alle recenti elezioni regionali Akce Nespokojených obcanu (ovvero l’Alleanza dei cittadini scontenti) ha vinto in 9 su 13 regioni. Lo guida (anche qui) un imprenditore miliardario, il vicepremier con delega alle Finanze Andrej Babis, ormai avversario unico del premier socialdemocratico Bohuslav Sobotka. Quanto alle politiche migratorie, vi è una sostanziale consonanza nel V4 – il cosiddetto Gruppo di Visegrad, di cui oltre alla Repubblica Ceca fanno parte Polonia, Ungheria e Slovacchia: quattro nazioni con quattro governi di impronta fortemente nazionalistica e non di rado xenofoba.


Minor rischio invece sembra profilarsi per la Francia. Dando per scontato il ballottaggio tutto interno alla destra fra il vincitore delle primarie neogolliste François Fillon e la leader del Front National Marine Le Pen (la gauche ai minimi storici non pare in grado superare il 20%, sempre ammesso che trovi un candidato credibile), si prefigura una situazione assolutamente simile a quella del 2002, quando il buon governo di Lionel Jospin venne spazzato via al primo turno dalla protesta anti-sistema di Le Pen padre, che obbligò i francesi a scegliere Chirac per arginare la cavalcata della destra xenofoba. Con una differenza significativa rispetto a quindici anni fa: al secondo turno Jean-Marie Le Pen non andò oltre il 17% dei consensi (sostenuto da tutta la gauche, Chirac volò sopra l’82%), oggi Marine – sondaggi incrociati confermano – vale almeno il 35% dell’elettorato. Non abbastanza per mettere davvero a repentaglio l’Eliseo, ma sufficiente per spaccare la Francia in due. E condizionare molte delle scelte del governo che verrà.


Ma anche Angela Merkel che a settembre metterà in gioco la sua quarta candidatura guarda con attenzione al ribollire sotterraneo che muove la pancia della Germania. Alternative für Deutschland, la formazione xenofoba guidata da Frauke Petry ha lanciato un messaggio più che esplicito al cancelliere: nelle regionali del Land Mecklenburg- Vorpommern ha sorpassato la Cdu-Csu con il 21% dei consensi, ma anche nel Baden-Württenberg Afp si piazza al 15,1%, nel Rheinland-Pfalz al 12,6 e nel Sachsen addirittura al 24,2. Come dire, un elettore su quattro. «Un avviso di sfratto a Frau Merkel», ha commentato la Petry. Se non è verosimile, è comunque vero che l’onda lunga del populismo xenofobo corre sulla paura dell’immigrazione incontrollata. Non a caso così titola all’indomani della strage del 19 dicembre al mercatino di Natale di Berlino la Bild, il popolarissimo tabloid amburghese: «Angst!», paura. E insieme alla paura comincia a metter radici un’insicurezza che nello straniero, nell’estraneo, lo “xenos” omerico, l’hostis latino (da cui discende l’aggettivo 'ostile') individua la malattia della nazione, il pericolo, l’insidia più letale. In una parola, xenofobia. Analisti e politologi concordano: Alternative für Deutschland non raggiungerà mai quote di consenso in grado di condurla al governo. Nondimeno la grande paura che polarizza la Germania si riverbera sulle ali più conservatrici della Cdu-Csu. E sono proprio queste da tenere a bada: dopo l’ondata di attentati chiedono al cancelliere politiche migratorie più restrittive. Le stesse, più o meno, che reclama Frauke Petry. In mezzo, Angela Merkel, che si gioca tutto: prestigio, autorevolezza, cancellierato: dopo la sorpresa di Donald Trump, niente è più scontato. Una sola cosa lo è davvero: per tutto il 2017 l’Unione Europea rischia davvero di funzionare a bassissimo regime: scelte, decisioni, strategie sono e saranno inevitabilmente condizionate dallo scadenzario delle varie elezioni. Non esattamente la profezia di Selmayr, ma certo un ritratto assai poco incoraggiante di ciò che resta dell’Unione Europea.


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