sabato 7 novembre 2020
Il direttore del Cesi, Iacovino: sarà necessario riconciliarsi con l’altra metà del Paese, ma il linguaggio del repubblicano è rimasto lo stesso della campagna elettorale
Gabriele Iacovino, direttore del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.)

Gabriele Iacovino, direttore del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.)

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Mentre negli Stati Uniti d’America volge al termine lo spoglio elettorale più contestato della storia a stelle e strisce e Joe Biden allunga il passo su Donald Trump, il mondo tiene il fiato sospeso per le sorti della maggiore democrazia, inevitabilmente intrecciate a quelle di tutte le altre: «Quali Stati Uniti usciranno da questo voto? Cioè, quale credibilità avranno ancora di fronte al mondo, visto che il presidente in carica ha infranto le regole democratiche? Questo è il punto», riflette Gabriele Iacovino, direttore del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.) di Roma.

Partiamo dall’unica certezza: sarà un mandato tutto in salita.

Indubbiamente. Che vinca Trump oppure Biden, il presidente non potrà portare avanti la sua agenda se non fra mille difficoltà. E non solo perché il Senato è repubblicano e la Camera democratica. Non è questa la novità: basti pensare al secondo mandato di Barack Obama, oppure di Bush figlio. Adesso il Paese è lacerato: sarà necessario ricucire lo strappo, riconciliarsi con l’altra metà che ha votato contro. Entrambi, è un fatto, hanno preso fiumi di voti. Joe Biden ha già adottato toni più conciliatori. Trump no: il suo linguaggio è rimasto lo stesso della campagna elettorale. Tutto quello che aveva preventivato, cioè la chiamata al broglio e alla resistenza nel caso di sconfitta, lo sta mantenendo.

Dalle parole ai fatti. Davvero secondo lei il presidente potrebbe forzare la mano?

Ce lo chiediamo tutti. Se dovesse perdere, accetterà di lasciare la Casa Bianca? Teniamo presente che gode di un appiglio forte su frange estremiste che non ha mai rinnegato.

Gli Stati Uniti hanno gli anticorpi per difendersi nel caso in cui Trump non accetti il risultato?

Ottima domanda. Rilancio. Ma li hanno mai avuti? Si è capito che il sistema americano è pensato per funzionare se tutti rispettano le regole democratiche. Trump non lo ha fatto, spiazzando tutti come un nuovo virus.

Il “trumpismo”, insomma, è destinato comunque a lasciare il segno.

Lascerà un segno pazzesco. In primis nel partito repubblicano, che ne è la prima vittima. Il consenso popolare nei confronti di Donald Trump è innanzitutto una critica nei confronti dell’establishment repubblicano. Poi, dovremmo anche chiederci quali Stati Uniti usciranno dalle urne. Intendo di fronte al mondo. Con quali autorevolezza e credibilità?

Viene prima la gallina o l’uovo? Ovvero, prima Trump o i populismi sovranisti?

Difficile. È stata l’amministrazione Trump a segnare il panorama politico internazionale, rafforzando il populismo avverso alle regole? Oppure il mondo stava già cambiando da tempo e Donald Trump ne è stato un prodotto? Forse entrambe le cose e tornare indietro non si può. Vedo, però, una grande differenza fra la campagna elettorale di quattro anni fa e questa: allora, il “trumpismo” fu creato da una macchina organizzata di strateghi, di consiglieri, di media “alternativi”. Questa volta, invece, il presidente non ne ha avuto bisogno. Ha fatto tutto in autonomia.

In queste ore, si narra di un Trump asserragliato alla Casa Bianca, solitario e rancoroso, abbandonato dai suoi. Ma è proprio così?

I principali media, non solo quelli a lui avversi, hanno cominciato a interrompere e rettificare le sue dichiarazioni. Persino Fox. Chi tifa per lui, però, crede a tutto quello che dice. Ascolta solo lui. Trump ha ancora grandissimo seguito.

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