mercoledì 29 luglio 2020
Il nuovo rapporto di Global Witness denuncia 212 omicidi nel 2019: la cifra più alta mai registrata: «Con la pandemia accresciuti i rischi»
Manifestazione in Colombia dopo l'omicidio del giovane Dilan Cruz

Manifestazione in Colombia dopo l'omicidio del giovane Dilan Cruz - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

La pioggia di fuoco l’ha mancata per un soffio. Eppure il commando aveva pianificato con attenzione l’attacco: avrebbero agito nel pomeriggio del 4 maggio 2019, durante la riunione. Il messaggio doveva risuonare inequivocabile: chi si oppone alle miniere nel Cauca muore. Anche se si tratta di una figura nota a livello internazionale come Francia Márquez, Premio Goldman 2018, il Nobel degli ecologisti. Un rumore, però, ha avvertito la vittima designata del pericolo. Francia si è buttata a terra. E, così, questa 40enne nera, icona della lotta nonviolenta per i diritti degli afrocolombiani, si è salvata. Il suo non figura fra i 212 nomi degli ecologisti assassinati nel 2019 – 64 dei quali in Colombia, il Paese di Francia Márquez – , raccolti da Global Witness, organizzazione tra le più rigorose nel censimento di quanti perdono la vita per la difesa della casa comune. Il nuovo rapporto, diffuso oggi, denuncia una vera e propria strage in atto. L’anno scorso è stato quello con il maggior numero di vittime mai registrate: in pratica, è stato ucciso un attivista ambientale ogni giorno e mezzo, per un totale di quattro alla settimana.

«La tendenza si mantiene in questa prima parte del 2020, anzi per certi aspetti la pandemia ha peggiorato la situazione », spiega Ben Leather, di Global Witness. Da una parte, la quarantena ha reso gli ecologisti un bersaglio più facile. Dal-l’altra, «le politiche restrittive messe in atto per contenere il virus, a volte, sono state impiegate per incrementare il controllo e la persecuzione degli attivisti ambientali», aggiunge Leather. La quasi totalità degli omicidi del 2019 è avvenuta nel Sud del mondo, America Latina in testa, seguita da Asia e Africa. Quest’ultimo Continente è fanalino di coda non perché il contesto sia migliore ma per la difficoltà di reperire i dati. La mappa della violenza, in ogni caso, coincide con le “frontiere calde” dell’estrattivismo.


50
sono gli attivisti anti-miniere uccisi: l’estrazione mineraria è il settore più pericoloso

5%
è la quota di nativi sul totale della popolazione, ma subiscono il 30% degli attacchi

19
sono state le guardie ambientali assassinate nel 2019: 8 omicidi sono avvenuti nelle Filippine

66%
è la quota di omicidi avvenuta in America Latina, il Continente più letale per gli ambientalisti

Con tale termine si indica un sistema economico basato sull’estrazione a basso costo – e ad alto impatto ambientale – di risorse naturali per l’esportazione. Il modello è incapace di creare ricchezza nei territori coinvolti, esposti alla fluttuazione dei prezzi delle materie prime nel mercato globale. A trarne enormi vantaggi sono, invece, aziende nazionali e trasnazionali con un elevato potere di pressione, a causa della fragilità delle istituzioni locali. In molte parti del pianeta, dunque, difendere i diritti della terra – e delle comunità che essa traggono il proprio sostentamento – significa opporsi a interessi miliardari. Il prezzo da pagare è alto dati i pochi strumenti a disposizione: a farsi carico della resistenza sono, in genere, piccoli contadini di zone remote. Spesso – il 40 per cento delle volte – sono indigeni: nell’anno del Sinodo sull’Amazzonia convocato lo scorso ottobre da papa Francesco, sono stati uccisi 33 nativi della foresta, a dimostrazione di quanto la voce dei vescovi convocati in Vaticano sia stata profetica e necessaria. Oltre la metà delle vittime totali si concentra in due nazioni: Colombia e Filippine.

I 64 morti di Bogotà, oltre che il record del 2019, sono anche il numero più alto censito in un solo Paese da Global Witness. Lo stillicidio si inquadra nella disputa in atto per il controllo dei territori lasciati dalla guerriglia delle Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc), dopo la firma dell’accordo di pace con il governo di quattro anni fa. La smobilitazione dei miliziani ha aperto un vuoto che lo Stato sembra incapace di colmare. Ad approfittarne sono gruppi armati illegali, dagli eredi dei vecchi paramilitari di ultra-destra ai guerriglieri dissidenti che rifiutano il trattato. In gioco ci sono enormi quantità di risorse tra cui, non ultima, la coca: 14 ecologisti uccisi lavoravano per la sua eradicazione. Nelle Filippine, uno dei Paesi più esposti all’impatto del cambiamento climatico, Global Witness ha contato 43 ambientalisti ammazzati. Tra loro, Datu Kaylo Bontolan, leader del popolo Talaingod-Manobo, ucciso il 7 aprile 2019 e, poi, etichettato dall’esercito, vicino alle grandi imprese estrattive, come sovversivo. Gli attacchi contro gli attivisti sono cresciuti dall’entrata in carica di Rodrigo Duterte nel 2016 e dalla sua politica di pugno di ferro, giustificata dalla lotta al terrorismo.

Nemmeno nel Nord del mondo, infine, gli ambientalisti sfuggono alla violenza, come conferma l’omicidio di due guardie forestali in Romania, dove si concentra la metà dei boschi primari d’Europa.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: