sabato 29 ottobre 2016
Viaggio negli Usa alla viglia del voto.
La sorpresa è nelle mani dei giovani «first time voter»
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«Io voto Donald Trump. La mia famiglia vota Donald Trump. Siamo del Nebraska, noi. Il “red vote” dalle nostre parti è una tradizione». Margaret ha 19 anni, è studentessa universitaria e vive a Wilmington, Delaware, dove Hillary ha scontate probabilità di vittoria e nel drugstore sull’interstate 95 in cui lavora part time è circondata da simpatizzanti del partito democratico, ma voterà ugualmente Trump «perché la Clinton è bugiarda, è proaborto ed è “untrustworthy”». Untrustworthy, inaffidabile. Sentiremo spesso questo aggettivo riferito ad entrambi i candidati nel nostro viaggio attraverso l’America rurale. Wilmington ha settantamila abitanti, un clima subtropicale che si attenua nelle mezze stagioni, un sindaco democratico, un ricordo sbiadito degli Algonchini – i nativi americani spodestati dai coloni olandesi – e un vanto di modesto calibro, quello di aver dato i natali a Sara Novoletsky, prima moglie di Bob Dylan e madre di Jakob, il celebre figlio del riottoso Premio Nobel.

Ma oltre a un bel sorriso, Margaret ha una caratteristica che in queste sgangherate elezioni presidenziali può essere cruciale: è una “first time voter”, che si accosta all’urna per la prima volta. Il ciuffo color zafferano di Donald Trump lumeggia dallo schermo piatto del drugstore. La Foxsta ridando per l’ennesima volta i momenti più incandescenti del terzo dibattito. Non ti fa senso votare per un uomo che ha così scarsa considerazione per le donne? «I don’t care – dice Margaret – Trump è Trump, è un uomo diretto. Sbaglia, esagera, ma è autentico. Io non voglio votare per una politicante».

Sorpresa: nell’America denudata delle sue certezze, con un’élite repubblicana allo sbando e un partito democratico che vive di ricordi gloriosi (certa sua retorica mi fa pensare agli anziani sessantottini di casa nostra), in questa America della disidentità ormai dimentica del “Common Good”, saranno forse i giovani, i “first time voters” a fare la differenza. La classe media, i quarantenni già infiacchiti, i cinquantenni che guardano accigliati il proprio futuro come i farmers di Steinbeck dopo le tempeste di sabbia sono molto più incerti dei giovani. «Non swing states, ma semmai swing people», dice Robert Romano, columnist del Chesapeake Today: «Faccio mie le parole del candidato repubblicano: la gente è frastornata dalla campagna mediatica che il team di Hillary ha organizzato per abbattere Trump. Con il risultato che il giornalismo è praticamente morto: giornali e televisioni si comportano esattamente come le lobby al Congresso. E la missione di questo conglomerato di giornali e tv è chiarissima: fare e- «Ileggere la Clinton ad ogni costo».


Rassicuriamoci: Romano non voterà per Trump, si turerà il naso – come moltissimi sulla East Coast – e darà il voto a Hillary The Lier, la bugiarda. «Non si può fare altrimenti». Certo è che Donald Trump è abilissimo a sparigliare i giochi: nei giorni scorsi ha promesso un New Deal per gli afroamericani (dai quali raggranella non più del 3% dei consensi), «ovvero – dice – comunità sicure, istruzione e un impiego ben retribuito». Spogliati delle certezze e delle identità di partito, milioni di americani dai trenta agli ottanta anni ondeggiano. Swing people, appunto. «Voterei Hillary – ammette Ophelia, 78 anni, una bella villetta con giardino, la siepe intorno alla proprietà e il ricovero per l’automobile («Ma quella la guida solo mio marito...») – l’ho vista in televisione. Il suo avversario è inguardabile. Penso che Hillary sia disposta a fare qualcosa per i meno fortunati. I poveri, intendo. Non sto parlando di me, io non mi considero affatto povera. Penso ai tanti, i neri soprattutto, che sono ai margini della società. Ce ne sono tanti anche qui, lo sa? Ma alla fine forse voterò per Jill...», Jill Ellen Stein il medico ambientalista leader dei Verdi americani. Un voto di testimonianza, più che altro.

Ma c’è un altro soggetto sociale che merita la nostra attenzione. Scovarlo è stato più difficile del previsto, ma alla fine (con l’aiuto decisivo di Amelia Long, vecchia conoscenza dell’Onu), ecco davanti a me Sharif, 24 anni, un impiego di tutto rispetto a Georgetown, il fascinoso sobborgo chic di Washington. Sharif viene dall’Afghanistan e da che ha messo piede negli Stati Uniti con un programma delle Nazioni Unite per i rifugiati questa è la prima volta che si affaccerà alle urne. «Non sono emozionato, sono solo deciso: voterò Hillary Clinton». Trump non ti attira? «Ma stai scherzando? Sono venuto via che ero ancora bambino da un Paese dominato dall’intolleranza dei taleban e dovrei mettermi nelle mani di uno che gli somiglia in tutto e per tutto?» Eppure proprio quel “taleban” dalla zazzera caricaturale che costruisce grattacieli a New York rischia di trasformare i molti Sharif d’America in quel fondamentalista riluttante (un mediorientale circondato dal sospetto nonostante la sua perfetta integrazione a Wall Street) magistralmente descritto dal romanzo di Moshin Hamid. Trump diffida degli immigrati, lo sai vero? «Esattamente come io diffido di lui».

Ma anche noi diffidiamo un po’ – è d’obbligo, visto il quasi biblico accatastarsi di endorsement in favore di Hillary: dal Washington Post a Rolling Stone, da Anna Wintour di Vogue al New Yorker. Perfino il solitamente ecumenico The Atlantic (che in 159 anni aveva pubblicamente appoggiato finora soltanto due presidenti, il repubblicano Abraham Lincoln e il democratico Lyndon B. Johnson) è sceso in campo con un eloquente «Contro Donald Trump», così come l’Arizona Republic per la prima volta in 126 anni ha deciso di non appoggiare un candidato repubblicano. Il che testimonia del globale esorcismo che salda la stampa liberal con l’élite dei maggiorenti – politici, magistrati, imprenditori, figure pubbliche democratiche (ma anche repubblicane) nei confronti di «The Donald», raffigurato come in un’allegoria di Bruegel nella perfetta incarnazione del male.

Un esorcismo, certo, una sorta di rituale di autoriconoscimento sociale, ma al contempo la testimonianza di un’equipollente cortina fumogena che avvolge e nasconde – per dirla con Keynes – gli “spiriti animali”, la scimmia di Albrecht Dürer che rappresenta gli istinti primordiali. Quelli cioè che sfuggono ai sondaggi e che – la Brexit insegna – possono riservare sorprese clamorose. Come quando, fra le mura discrete del Willard, (l’albergo della capitale il cui atrio – in inglese “lobby” – diede origine quasi due secoli fa a questo termine comunemente in uso) rivedo una vecchia conoscenza del “Post” e le chiedo: cosa voterai? La sua esitazione, quel lampo dello sguardo in cui s’intravede il lavoro dell’amigdala nell’individuare il pericolo e fabbricare la menzogna più opportuna, dice tutto. «I will vote for her », io voterò per lei. Certo, ma senza nemmeno nominarla. E saranno milioni a scegliere con un tormentato logorio il male minore. Sempre che lo facciano davvero.

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