domenica 19 gennaio 2020
Il generale Georgelin guida il cantiere come l’esercito: ha detto agli architetti di «chiudere il becco», perché la cattedrale «è ancora in pericolo»
Le impalcature e la copertura sulla cattedrale bruciata il 15 aprile 2019

Le impalcature e la copertura sulla cattedrale bruciata il 15 aprile 2019 - Ansa

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Nove mesi dopo, come una calamita, quella ferita al centro della città continua ad attirare gli sguardi, qualunque sia il punto d’osservazione, vicino o lontano. «Ho sofferto molto», ci dice una giovane guida sudcoreana, mentre lascia a un gruppo di turisti suoi connazionali il tempo di contemplare la cattedrale mozzata.

Di fotografarla in silenzio, senza frenesia né curiosità morbosa. Come per portarle, passate meno di due settimane dall’Epifania, il dono di una carezza giunta da lontano. Ti avvicini a Notre-Dame, sotto un cielo terso d’inverno, e sembra davvero di arrivare al capezzale di un’anziana madre sofferente. Provenendo dalla piazza dell’Arcangelo Michele cara agli studenti della Sorbona, la cattedrale appare di colpo oltre il lungosenna come sdraiata su un tavolo operatorio. Stretta fra due enormi gru che ricordano vagamente dei chirurghi in azione.

E avvicinandosi pian piano, altri due dettagli impressionano. Innanzitutto, il filo spinato che ricopre le recinzioni attorno alla piazza intitolata a san Giovanni Paolo II: una cortina che forse ricorda ad alcuni la più celebre reliquia salvata dal rogo dello scorso 15 aprile, la Corona di spine del Cristo. Poi, colpisce proprio il silenzio ossequioso e la lentezza dei gesti di quanti sono costretti a restare al di qua della protezione. Fino al giorno della catastrofe, la stessa piazza risuonava dell’euforia di lunghe code di visitatori e pellegrini, giunti finalmente sulla soglia di un sogno inseguito da anni.

Un gran movimento generale che finiva per stornare la concentrazione di alcuni. Ora, invece, nella sua fragilità inattesa, la cattedrale giace come su un cuscino ricamato pazientemente dalle migliaia d’ore di preghiere e lacrime vissute lungo tutto il perimetro del cantiere.

«Ero a casa, ho acceso la televisione e non dimenticherò mai le immagini», confessa con emozione una madre di famiglia spagnola, dopo essersi concessa con i cari un selfie eccezionalmente pudico e composto. Sono tutte espressioni minime e anonime di comunione che sembrano dar corpo alle parole di monsignor Michel Aupetit, quando gli chiediamo quale sia la grande priorità del momento: «Desidero che il dramma che ha raggiunto Notre-Dame ed ha suscitato un’emozione internazionale sia l’occasione di ritrovare una fratellanza più grande attorno al senso della cattedrale, ovvero la gloria del Cristo», ci dice l’arcivescovo di Parigi, aggiungendo: «Essa è il tempio della presenza del Signore. Essa dà senso al legame fra il Cielo e la terra, Dio e gli uomini».

A poche ore di distanza, la cerimonia all’Eliseo di auguri del nuovo anno alla stampa internazionale offre l’occasione di rivolgersi all’altro responsabile in vista maggiormente associato al destino di Notre-Dame: «Siamo nella fase di ricostruzione della cattedrale. Cinque anni basteranno. Alcuni vorrebbero forse restare nel disfattimo smo, ma ce la faremo», assicura ancora una volta il presidente Emmanuel Macron, rispondendo ad Avvenire con ottimismo ostentato. Come molte sue consorelle d’oltralpe, la cattedrale appartiene giuridicamente allo Stato. Dunque, la responsabilità della rinascita della struttura architettonica incombe in primo luogo proprio sul giovane capo dell’Eliseo, le cui spalle si sono caricate di un onere storico decisamente imprevisto. A estremi mali, estremi rimedi, ha pensato Macron, ponendo alla guida del cantiere un uomo d’esperienza famoso non tanto per le proprie competenze architettoniche, quanto per il carattere d’acciaio: il generale Jean-Louis Georgelin, 71 anni, già capo di Stato maggiore dell’Esercito e cattolico fervente.

Alla guida dal mese scorso dell’ente ad hoc che coordinerà i lavori, il militare in pensione ha già fatto parlare di sé, chiedendo apertamente al capo degli architetti coinvolti, Philippe Villeneuve, di «chiudere il becco» in pubblico circa le future opzioni tecniche della ricostruzione. In effetti, al quotidiano più letto nella capitale, Le Parisien, il generale ha spiegato nei giorni scorsi che «Notre-Dame è ancora in stato di pericolo», anche se la navata centrale è ormai impermeabilizzata. E tagliando corto sulle polemiche di costi lievitati, fondi e ritardi. Una volta chiusa la fase di consolidamento e di diagnosi sulle resistenze strutturali, si spera in primavera, saranno lanciati subito gli studi sulle tecniche più opportune di restauro. Tenendo contro anche dei rischi che l’acustica originale venga compromessa, come sottolineano alcuni esperti.

Da nove mesi, attorno al profilo sfigurato di Notre-Dame, non sono poche le anime che finiscono per vagare sconsolate fra le stradine medievali adiacenti, sull’Île de la Cité: «Continuiamo a riceverli e a rincuorarli», racconta Odette, che con il marito Georges gestisce la più antica locanda del quartiere, dalle mura cinquecentesche e abbellita da statue d’angeli al piano superiore: «Ha visto il nostro presepe sul marciapiede, all’ingresso? In tanti, restano lì ad ammirarlo, perché ormai non possono più farlo a Notre-Dame. Per questo, lo terremo fino alla Candelora. Molti ne hanno bisogno. E per la prima volta, neppure i vigili urbani hanno osato multarci per lo spazio pubblico occupato».

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