giovedì 29 gennaio 2009
COMMENTA E CONDIVIDI
Per molte di loro, varcare la so­glia di una classe e tenere u­na matita in mano resterà un sogno. Sono milioni le bambine a­fricane e asiatiche che rischiano di scivolare per sempre nel pozzo scu­ro dell’analfabetismo. Eppure, l’i­struzione primaria per tutti resta u­no degli 'obiettivi del Millennio' da raggiungere entro il 2015. Un altro traguardo eleborato a tavolino che si scontra con i dati di realtà. Ufficialmente, i governi aumenta­no spesso la spesa nell’istruzione. E i centri missionari, accanto alle ini­ziative di certe ong internazionali, cercano di portare penne e quader­ni fin nelle zone rurali più inacces­sibili. Persino in quelle campagne etiopi dove ancora neppure 5 bam­bini su 100 finiscono le elementari. Ma per le bambine gli ostacoli da superare possono restare lo stesso troppi. Le aule non sono sempre vi­cine alle comunità. Oppure man­cano le condizioni di sicurezza mi­nime lungo il percorso, soprattutto in quei Paesi appena usciti da con­flitti o ancora in stato di guerra la­tente. A volte le scuole ci sono, ma mancano di servizi igienici separa­ti o di acqua corrente. E anche quando tutti questi ostacoli sono stati superati, davanti alle bambine può aprirsi la voragine dell’emar­ginazione rispetto ai coetanei ma­schi. Gli stessi manuali promuovo­no ancora in molti Paesi un’imma­gine femminile distorta o sminuita. E talora insegnanti succubi di pregiudizi atavici relegano le ra­gazzine agli ultimi banchi. Le le­zioni di matematica e di scienze, in particolare, possono trasformarsi così in un’autentica apartheid: le a­lunne alzano la mano per interve­nire, ma nessuno permette loro di aprire bocca. Quando le popolazioni entrano nel mirino del fondamentalismo, come in vaste regioni del Pakistan e del­l’Afghanistan, gli ostacoli culturali invisibili si trasformano per le bam­bine in un vero e proprio muro. Le scuole per ragazze chiudono o so­no tenute sotto costante assedio. E in molte città, non saranno i gover­ni a poter imporre il contrario. Lo scorso novembre, 15 adolescen­ti si recavano a scuola a Kandahar, l’ex quartier generale dei talebani. Un commando a bordo di moto ha strappato loro il burqa, spruzzando poi acido sui volti. Si tratta di blitz mostruosi che finiscono sempre per seminare nuovo panico in intere città. Nella valle di Swat, in quel Pakistan nordoccidentale oggi sot­to il giogo talebano, il 2008 si è chiu­so con l’ultimatum lanciato dai luo­gotenenti del mullah Fazlullah: chiudere le scuole femminili entro il 15 gennaio. Le famiglie di qua­rantamila bambine e adolescenti hanno dovuto scegliere fra sotto­missione ed esilio. Nei Paesi africani ancora infestati da miliziani, dalla Costa d’Avorio al­la Repubblica Democratica del Congo, per tante bambine andare a scuola può coincidere con un ri­schio altissimo di cadere nell’enne­simo agguato sessuale. E quando non è il terrore a bruciare la strada verso l’aula agognata, l’orco di tur­no può essere semplicemente la mi­seria. Per tante bambine può spa­lancarsi presto la strada dei lavori nei campi per portare sostegno spesso a genitori o parenti malati di una delle pandemie che infuriano nel continente. E la spirale della mi­seria, magari sotto forma di una nuova carestia, può risucchiare an­che chi la soglia scolastica l’aveva già varcata, magari per un intero an­no o due. Così in molti Paesi del Sahel le ra­gazze sono costrette molto più dei maschi ad interrompere anche dei brillanti inizi nel mondo della scrit­tura e della lettura. Nei Paesi svi­luppati della scuola per tutti o quasi, come in Europa, le ragaz­ze ottengono ri­sultati migliori dei ragazzi e restano in media fra i banchi di scuola per 16 anni, ovve­ro un anno in più dei coetanei. Nel­l’Africa subsahariana, quando una ragazza riesce a cominciare, il ca­polinea giunge in media dopo 8 an­ni, uno in meno dei coetanei. Certi dati, fra l’altro, sarebbero viziati da lacune e talora da falsificazioni go­vernative. In generale, il popolo op­presso dei bambini lontani dalle scuole parla per il 70 per cento al femminile. Eppure, nonostante lo scenario ge­nerale ancora fosco, si aprono in molti Paesi sprazzi di positività e non mancano esempi virtuosi (ne parliamo anche negli articoli qui sotto). In Uganda lo Stato si prende in carico le spese scolastiche di tut­ti gli orfani e di 4 figli per famiglia. In Ghana e in Indonesia, la scuola è divenuta obbligatoria fino all’età di 10 anni. In Mauritania si moltipli­cano le aule nelle zone rurali. Nel popoloso Stato indiano dell’Uttar Pradesh, poi, le bambine ricevono borse di studio e pasti gratuiti. E nel non lontano Bangladesh l’obiettivo della parità fra bambini e bambine è stato raggiunto in pochi anni. Fra i segreti di questo successo esem­plare, anche il programma food for education: le famiglie più povere ri­cevono ogni mese 15 chili di fru­mento o 12 di riso se un bambino viene scolarizzato. In molte parti del mondo in via di sviluppo, di fatto, il primo catenaccio della scuola è na­scosto negli stomaci vuoti. Bambini a scuola nello slum di Kibera, in Kenya
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: