domenica 7 maggio 2017
Recessione, crollo dei prezzi delle materie prime, poi le rivolte politiche innescate dalla povertà crescente, hanno portato Paesi come il Venezuela, il Brasile o l’Argentina allo scontro sociale
La polveriera America Latina ormai pronta ad esplodere
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La terra del perenne futuro, la definiva il poeta messicano Octavio Paz. Un’opera «in costruzione » per il connazionale Enrique Krauze. E l’eroe-simbolo dell’indipendenza, il “Libertador” Simón Bolívar, era stato ancora più caustico: l’America Latina «è ingovernabile». Una profezia rinnovata dalla penna del suo romanziere più emblematico, Gabriel García Márquez, con la condanna dello zingaro Melquíades a «cent’anni di solitudine» per il Continente.

Con l’inizio del nuovo millennio, però, l’America Latina sembrava essersi finalmente emancipata da tale predizione. Il boom del prezzo internazionale delle materie prime – di cui la regione è serbatoio – aveva innescato il decollo delle economie nazionali. La crescita sostenuta ha consentito di portare avanti con successo programmi di ridistribuzione che hanno fatto calare la diseguaglianza, riducendo l’indice di Gini al minimo storico di 0,50 (i valori variano da 0 a 1). L’esempio più emblematico è il Brasile con 40 milioni di persone strappate alla miseria in meno di un decennio. L’approccio soft di Barack Obama verso i vicini del sud, aveva, inoltre, favorito l’integrazione regionale.

L’“età dell’oro”, tuttavia, non è sopravvissuta al crollo della domanda cinese e al conseguente calo globale dei prezzi delle risorse. Dal 2015, la recessione si è estesa a macchia di leopardo, mandando in crisi i governi – in genere di centro-sinistra –, protagonisti del precedente exploit. Alcuni – come in Argentina o in Brasile – sono caduti sulla spinta del malcontento popolare, di faide politiche interne o scandali giudiziari. E sono stati sostituiti da esecutivi pro-austerity. Il che ha fatto esplodere la rabbia popolare in scioperi e proteste. Altri – vedi il caso venezuelano – hanno cercato di arroccarsi per restare al potere. Il risultato, a Caracas, è stata un’escalation di tensione che ha già causato un’ondata di manifestazioni e 37 vittime.

L’opposizione è determinata a non «mollare la piazza»: ieri, in corteo, hanno sfilato solo donne con un fiore bianco in segno di dolore per i morti. Altrove, in Messico e America Centrale, la violenza inaudita – è da anni la regione più letale al mondo – svela il dramma di una politica “ostaggio” di potenti gruppi criminali transazionali. Con poche eccezioni, dal Rio Bravo alla Terra del Fuoco, l’America Latina ribolle. Un ritorno alla profezia di Melquíades? La tentazione di leggere la crisi attuale come un regresso al passato è forte. E, ancor più, quella di interpretarla in base allo schema «rivoluzione (marxista in senso lato) – controrivoluzione, spesso con contributo esterno –, dittatura», proprio del Novecento. Il panorama internazionale, però, è mutato. Il muro di Berlino è crollato. E con esso anche i suoi ostinati “derivati' dall’altro lato dell’Atlantico. Il 17 dicembre 2014 - dopo oltre mezzo secolo -, Cuba e gli Stati Uniti hanno riallacciato i rapporti diplomatici spezzati dalla Guerra fredda.

Lo scorso primo dicembre, il governo colombiano e la principale guerriglia d’ispirazione marxista, le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), hanno messo fine a 52 anni di ostilità. Un’ulteriore cesura è rappresentata dall’irruzione alla Casa Bianca di Donald Trump. Mai prima d’ora, un presidente Usa era apparso tanto disinteressato a quanto accade nell’«ex giardino di casa». In 108 giorni di governo, il leader non ha ancora nominato un segretario aggiunto nel Dipartimento di Stato che si occupi di questioni latinoamericane.

A parte l’ossessione del muro con il Messico per fermare i «bad hombres», Trump affronta gli affari continentali a colpi di tweet ad alto contenuto retorico. Per il resto, latita. Le dichiarazioni sullo stop al disgelo con Cuba finora sono rimaste sulla carta. Molti analisti le considerano uno mero strumento per conquistare il sostegno dei repubblicani della Florida. Sul processo di pace colombiano – fortemente sostenuto da Obama – ha mantenuto una linea ondivaga. Dopo aver espresso pieno appoggio al presidente Juan Manuel Santos, Trump ha avuto un incontro cordiale con Álvaro Uribe e Andrés Pastrana, principali oppositori al negoziato con le Farc. È il Venezuela, però, il vero “banco di prova” per l’Amministrazione repubblicana. A febbraio, il presidente ha ricevuto alla Casa Bianca Lilian Tintori, moglie di Leopoldo López del più noto oppositore al governo di Nicolás Maduro. Il 27 aprile, nel pieno delle proteste, ha rincarato la dose, definendo – su Twitter – «il Venezuela un disastro ».

Fra l’approccio multilaterale, in concerto con le altre potenze regionali e la linea dell’intervento unilaterale, The Donald ha scelto le dichiarazioni estemporanee. Il «nuovo isolazionismo» Usa è un ulteriore segnale che le “crisi novecentesche” sono ormai giunte al capolinea. A sopravvivere sono, semmai, le cause che le avevano provocate. Amplificate da decenni di soluzioni-tampone a colpi di autoritarismo. La pseudo-terapia, tuttavia, non ha fatto che accrescere il male. Né il boom ha potuto curarlo. Accelerati dall’effetto-globalizzazione, ora, i nodi irrisolti stanno venendo al pettine. In primis, la cronica fragilità delle istituzioni, frutto avvelenato delle dittature, antiche e recenti.

La fine dei regimi e dei conflitti civili ha lasciato disoccupati una serie di gruppi paramilitari addestrati alla violenza e forniti di ogni genere di armi. Assuefatti all’impunita, questi si sono facilmente riciclati sul mercato criminale, rafforzando le mafie emergenti. Sulle spalle degli Stati del Continente, poi, continua a pesare come un macigno una diseguaglianza feroce. Nonostante i recenti progressi, l’America Latina è ancora la regione con maggior dislivello fra ricchi e poveri. Dal 2002 al 2015 – sottolinea Alicia Bárcena in Latin America at a cross road (Ispi) – le fortune dei milionari locali sono cresciute del 21 per cento all’anno, sei volte la crescita complessiva. Una parte consistente dei proventi è poi volata verso paradisi fiscali. Una fetta enorme della ricchezza prodotta dal boom è, dunque, rimasta intrappolata nelle tasche di pochi privilegiati. La politica tributaria, del resto, non aiuta.

La maggior parte delle nazioni ha imposte bassissime su patrimoni e transazioni finanziarie: ad essere tassato è soprattutto il consumo. Ogni tentativo di riforma si scontra con l’opposizione feroce dell’élite. E questo mix di fattori l’acceleratore della turbolenza attuale. I cui esiti sono tutt’altro che predeterminati. Né scontata è la via per uscire dal labirinto. Papa Francesco, nel messaggio Urbi ed Orbi di Pasqua, ha provato a indicare un “filo di Arianna” per la sua America Latina. «Si possano costruire ponti di dialogo, perseverando nella lotta contro la piaga della corruzione e nella ricerca di valide soluzioni pacifiche alle controversie, per il progresso e il consolidamento delle istituzioni democratiche, nel pieno rispetto dello Stato di diritto».

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