venerdì 23 settembre 2011
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È la storia di un lungo, tragico fallimento quello della pace fra israeliani e palestinesi. Una serie ininterrotta di occasioni mancate, di radicalismo, di calcoli sbagliati, di populismo che ha spinto i due popoli all’odio e alla sfiducia reciproca. Lo storico israeliano Benny Morris aveva intitolato il suo libro più famoso “Vittime”, sottolineando come lo siano state tanto la popolazione ebraica quanto quella araba. Ma per ogni vittima esiste il suo carnefice. E di questi ultimi ve ne sono stati tanti, in questo secolo di lotta.Il sogno sionista. L’idea di riportare gli ebrei della diaspora in “Erezt Israel” attraversa la storia di quel popolo. Ma è solo alla fine del XIX secolo che si sviluppa il “sionismo politico”, sotto la guida di Theodor Herzl, un intellettuale ebreo di Budapest che – sull’onda del crescente antisemitismo in Europa – rilancia l’idea di una migrazione in Palestina per ricreare Israele. Il contrasto con la scarsa popolazione araba in Palestina era inevitabile e andò aumentando fra la prima e la seconda guerra mondiale, via via che cresceva la presenza ebraica. Gli Inglesi, che controllavano la regione, furono incapaci di trovare una soluzione condivisa. Nel 1947, l’Onu, da poco fondata, propose una spartizione in due Stati. I sionisti – pur divisi e poco soddisfatti – accettarono la proposta. Gli arabi la rifiutarono: gli ebrei potevano vivere in Palestina ma come minoranza all’interno di uno Stato arabo. È l’inizio del rifiuto arabo di Israele. Fallita la mediazione Onu, la parola passò alle armi e a una violenza terroristica sempre più brutale da parte di entrambi, spingendo la Gran Bretagna a ritirarsi nel maggio 1948. Il giorno dopo nasceva Israele. Israele e le guerre con gli Stati arabi. I primi decenni di conflitto sono soprattutto uno scontro fra Israele e gli Stati arabi (Egitto, Giordania e Siria in particolare). Il sogno di una spallata militare per distruggere lo Stato israeliano si rivelò tuttavia una chimera. Ogni conflitto (1948-9, 1956, 1967, 1973) finì con la sconfitta degli eserciti arabi. Nel 1949, alla fine del primo scontro, i confini di Israele risultarono ben più grandi di quelli previsti dall’Onu. Il resto della Palestina venne inglobato dalla Giordania o dall’Egitto. Nessuno Stato di Palestina poté nascere, anche perché i governanti arabi non la volevano. I palestinesi si dispersero: chi rimase nei territori di Israele (ma molti vennero espulsi a forza, una delle pagine più nere della storia di Israele), chi in Cisgiordania (occupata nel 1967), chi nei campi profughi –- ghetti che esistono ancora oggi nei vari Paesi arabi –, chi si rifugiò nelle monarchie del Golfo. I leader arabi si erano autoproclamati i difensori dei palestinesi, ma nei fatti li usarono cinicamente, non esitando a massacrarli se ritenuti un pericolo, come fece re Hussein di Giordania durante il sanguinoso “Settembre nero” del 1970.La via palestinese. È solo con la sconfitta della via militare che i palestinesi iniziarono a divenire soggetto, e non solo oggetto, di lotta. Nel 1964 nasce l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), che troverà in Yasser Arafat il suo leader. Gli strumenti sono quelli della guerriglia e del terrorismo, soprattutto dopo la disastrosa sconfitta nella “Guerra dei sei giorni” che porta l’esercito israeliano a conquistare Gerusalemme Est e la Cisgiordania. Una via perdente: non solo perché Israele era infinitamente più forte, ma perché la violenza palestinese ne esasperò l’ossessione per la sicurezza. Negli anni Venti, il leader della destra sionista, Jabotinsky aveva detto che Israele sarebbe dovuta nascere con attorno un «muro di ferro»: chiusi nel loro muro, i politici israeliani hanno perduto più volte la possibilità di avanzare proposte coraggiose di pace. Per sconfiggere definitivamente l’Olp, i carri armati con la stella di Davide entrano nel Libano nel 1982. Ma i soldati, che dovevano rimanervi per poche settimane, se ne andranno solo nel 2000, messi alle corde dagli sciiti di Hezbollah. Certo, l’Olp venne militarmente schiacciata, ma la sua sconfitta fece nascere altri – e più aggressivi – movimenti.L’Intifada e la speranza della pace. Alla fine degli anni Ottanta, a sorpresa, i palestinesi dei Territori Occupati si ribellarono (la “rivolta delle pietre”) all’occupazione israeliana. Fu la “prima Intifada” (sollevamento): le immagini dei ragazzini brutalmente colpiti o uccisi mentre lanciavano sassi contro i blindati, scosse l’opinione pubblica internazionale. Il danno d’immagine per Israele fu immenso. L’Intifada era una battaglia politica a cui i politici israeliani non seppero per anni rispondere. Ma la rivolta sorprese anche l’Olp, favorendo la nascita di altri movimenti palestinesi, come Hamas, non più solo nazionalisti ma anche islamisti, che indebolirono il sostegno all’organizzazione di Arafat. Dopo anni di monotonia della repressione – che inocularono altro odio, dolore e sete di vendetta – si arrivò ad avviare dei negoziati (ufficiosi) fra Olp e Israele. Nel 1993, gli accordi di Oslo sembrano l’inizio di un percorso di pace. L’Olp riconosceva Israele e rinunciava alla violenza; Israele riconosceva l’Olp e accettava un’Autorità nazionale palestinese (Anp) su parte dei Territori Occupati. Non ancora uno Stato palestinese, ma il suo embrione.<+nero>Venti anni perduti<+tondo>. Come una gelata tardiva che brucia tutte le gemme, così è avvenuto per le speranze di una pace in Medio Oriente. Arafat, divenuto il capo dell’Anp, gestì il potere nel peggiore dei modi: un lungo declinante regno di corruzione, faide interne e ambiguità che gettò nel discredito il proprio movimento. In Israele la destra demonizzò il primo ministro Rabin, firmatario degli accordi, ucciso da un estremista ebraico nel 1995. Da allora solo occasioni mancate. Nel 1999, il fallimento del secondo Camp David voluto da Clinton: le distanze sul futuro di Gerusalemme e sul ritorno dei profughi palestinesi erano incolmabili. Subito dopo lo scoppio della “seconda Intifada”, molto più violenta e sanguinosa della prima che ha finito per creato un muro invalicabile (e non solo metaforico: gli israeliani lo hanno costruito davvero) fra due mondi sempre più lontani e arroccati nella propria rabbia. E poi la guerra civile fra palestinesi moderati e Hamas che li ha indeboliti ulteriormente, mentre gli israeliani si spostavano politicamente a destra, sempre più sensibili alle lusinghe del populismo radicale. Quasi vent’anni per trovarsi più lontani, stanchi e diffidenti che nel 1993.I rischi del futuro. Vista nella prospettiva lunga – quella dello storico – risulta evidente che la nascita di uno Stato di Palestina sia una conclusione logica, giusta e necessaria. E la battaglia della destra israeliana per impedirlo è assurda e controproducente. Ma nel breve periodo è altresì evidente come i palestinesi siano debolissimi e divisi sul piano negoziale e come la mossa di Abu Mazen di cercare all’Onu una soluzione sempre mancata nelle trattative bilaterali sia il frutto della disperazione di una dirigenza che ha fallito i propri obiettivi. I rapporti di forza fra israeliani e palestinesi sono così enormemente differenti che è difficile immaginare una Palestina nata contro la volontà del governo israeliano. Al contrario, il passaggio all’Onu – se si convergerà su proposte in qualche modo concordate – può rilanciare un’azione internazionale meno velleitaria e ondivaga che in passato, facendo ripartire un negoziato che in troppi, nella regione, fingono solamente di volere.
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