domenica 10 maggio 2015
​Reportage. Cristiani in prima linea, ma ci sono troppi ostacoli. Il vescovo Simick: è un’impresa enorme, bisogna fare più in fretta.
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«Siamo molto preoccupati – dice ad Avvenire il vescovo Paul Simick, capo della Chiesa cattolica del Nepal –. Le cose devono muoversi più velocemente ma è ancora estremamente difficile raggiungere le zone del disastro». Distribuire gli aiuti alle vittime del terremoto che lo scorso 25 aprile ha colpito le zone più remote della nazione himalayana, «è un’impresa enorme – spiega il vescovo –: i volontari della nostra Chiesa e i team internazionali stanno aspettando che il materiale raggiunga Kathmandu, ma l’aeroporto è troppo piccolo e congestionato».  Il ministro dell’Interno del Nepal ha annunciato il nuovo bilancio delle vittime: 7.904 morti – tra cui 70 stranieri che si trovavano in Nepal per scalare l’Himalaya quando sono stati travolti da valanghe di neve causate dal terremoto –, oltre 17.800 i feriti.  Tuttavia, i numeri purtroppo sono destinati ad aumentare, perché migliaia di nepalesi sono ancora dati per dispersi.  Nel distretto di Sindhupalchowk, uno dei più colpiti dalle scosse, i soccorritori hanno recuperato oltre tremila cadaveri dalle macerie, ma le autorità locali hanno confermato nei giorni scorsi che all’appello ne mancano altrettanti. Sulla strada per Gorkha, a 130 chilometri da Kathmandu – prosegue il vescovo Simick – «c’era gente affamata che aspettava cibo e medicine e che ha percorso molte miglia per raggiungere i soccorsi». Il giorno del terremoto il vescovo si trovava nel paese di Okhaldunga, nel distretto di Ramechap, 200 chilometri a sud-est dalla capitale nepalese, per l’ordinazione del decano gesuita Tek Raj Paudel. Mentre scendeva a piedi da una collina, racconta, «ho sentito un rumore come quello di un elicottero. La terra ha tremato e le case hanno cominciato a disintegrarsi come se fossero costruite con un mazzo di carte».  Il vescovo è riuscito poi a raggiungere a piedi il paese di Maithili, ma qui si è fermato perché la strada era stata bloccata da una valanga. Una volta ripulita la strada, tre giorni dopo, è stato riaccompagnato in jeep a Kathmandu. Qualche giorno fa, abbiamo accompagnato il vescovo mentre lasciava la sua casa nel quartiere di Lalitpur della capitale per raggiungere la parrocchia di Banyatar, sulle colline sopra Kathmandu.   Scosso dalla devastazione, monsignor Simick si è fermato in diverse aree. A Balaju le forze dell’ordine cercavano di tenere a freno centinaia di persone, mentre i team di soccorso internazionali tentavano di recuperare persone intrappolate nelle macerie di appartamenti e alberghi cinque giorno dopo il terremoto. «È davvero devastante», è stato il commento del presule di fronte alle macerie di un complesso di quattro piani dove sono rimaste intrappolate e hanno perso la vita più di cinquanta persone, tra cui 17 cristiani. Il bilancio del terremoto che ha travolto il Nepal sabato 25 aprile a mezzogiorno è stato ancora più pesante per le chiese evangeliche: più di cento cristiani sono morti a Kathmandu e molti altri in aree remote. E almeno 29 fedeli sono rimasti intrappolati sotto i resti della Chiesa di El Shaddai, nel quartiere di Kapan. «Qui – spiega l’ufficiale di polizia Balaji Ramajhi mentre i bulldozer portano via le macerie – abbiamo recuperato 29 cadaveri e salvato trentasei persone».  Il terremoto, racconta Chirendra Satyal, un convertito al cattolicesimo, «è avvenuto nel momento in cui molti cristiani si erano riuniti in preghiera». Il Nepal, non ha ancora cambiato il giorno festivo dal sabato alla domenica e al momento del terremoto, a mezzogiorno, migliaia di cristiani evangelici si trovavano all’interno delle chiese per la consueta preghiera. «Sì è vero – spiega Kala Bahadur Rokaya, segretario generale del Consiglio nazionale delle Chiese del Nepal –, i luoghi di culto evangelici hanno sofferto tragedie terribili, perché il terremoto è avvenuto proprio al momento della preghiera. E ci vorrà tempo prima di avere un bilancio preciso dei morti tra le comunità cristiane, molte di esse sono infatti ancora isolate».  È stato alla parrocchia di Banyatar, dopo aver attraversato sentieri ricoperti da detriti, che monsignor Simick ha saputo della prima vittima cattolica, una bambina di nove anni di nome Michele Ghale, schiacciata dalle macerie della sua casa. «La piccola Chiesa cattolica in Nepal, che può contare su meno di diecimila fedeli in una nazione di 28 milioni di persone, ha motivo di ringraziare Dio se è sopravvissuta alla devastazione che ha colpito il Paese».  Cercando di spiegare i problemi logistici che devono affrontare in questi giorni i soccorritori, Padre Pius Perumana, direttore della Caritas del Nepal, ha detto che «il nostro unico aeroporto, quello di Kathmandu, è troppo piccolo e congestionato. Le strade sono bloccate dalle valanghe e il coordinamento da parte del governo è scarso». Molti degli aeroplani carichi di aiuti devono sorvolare lo scalo per ore prima di poter atterrare, altri finiscono con l’essere dirottati in India. Sotto la guida della Caritas del Nepal, dozzine di enti di carità cattolici hanno organizzato un network di coordinamento per accelerare i soccorsi. «Stiamo cercando di recuperare materiale dove possiamo – spiega Albert Grasse Hokamp della Caritas tedesca, in Nepal da quattro anni –. Provviste dall’India; tende dl Pakistan e Dubai; medicine dall’Europa». Dopo aver visto la devastazione, anche molti turisti che si trovavano in Nepal al momento del terremoto si sono uniti ai soccorsi. «È molto meglio fare qualcosa per la gente – racconta Alexander Gawlitza di Mainz, in Germania, mentre riempie pacchetti di lenticchie destinati ai sopravvissuti in zone remote – che stare seduti in una stanza d’albergo ad aspettare un volo per tornare a casa».(Traduzione a cura di Elisabetta Del Soldato)

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