giovedì 7 luglio 2022
Il patriarca torna a giustificare l’invasione: «La Russia non ha fatto del male a nessuno». Il ramo ucraino della Chiesa ortodossa sta abbandonando il patriarca: già 12mila le parrocchie transfughe
Il patriarca Kirill

Il patriarca Kirill - Ansa

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Kaliningrad, l’armatissima exclave russa compressa tra Polonia, Lituania e Mar Baltico, è nell’occhio del ciclone? Arriva il patriarca Kirill, accolto con tutti gli onori dal governatore Anton Alikhanov e dal comandante della Flotta del Baltico ammiraglio Viktor Liina.

Difficile credere che la massima autorità della Chiesa ortodossa russa abbia affrontato il viaggio in un punto così “caldo” solo per consacrare la cattedrale dei Santi Cirillo e Metodio o rivedere la città della cui diocesi, a partire dal 1984 e fino all’elezione al Patriarcato nel 2009, è stato amministratore. O per lasciar cadere un’altra delle frasi tipiche con cui ha punteggiato questi mesi drammatici: «Molti oggi si ribellano al nostro Paese ma sappiamo che il Paese non ha fatto del male a nessuno. L’alterità della Russia suscita gelosia, invidia e indignazione ma non possiamo cambiare». Aggiungendo per buona misura che l’ostilità verso la Russia nasce «non perché siamo cattivi ma perché siamo diversi».

Nemmeno si deve pensare, però, a un mero pronto soccorso religioso verso le strategie del Cremlino. Della crisi profondissima che l’Europa attraversa, compresa l’invasione dell’Ucraina e la guerra, Kirill è protagonista, non comprimario.

E per diverse ragioni.

La prima è che la teoria del russkij mir, la fantomatica coerenza storica, culturale e spirituale che lega i popoli di Ucraina, Russia e Bielorussia e deve a tutti i costi essere difesa, cioè la teoria con cui Vladimir Putin giustifica le recenti decisioni, non è nata al Cremlino bensì in ambienti ecclesiali che proprio a Kirill possono essere ricondotti.

Le riflessioni cominciarono a metà degli anni Novanta con lo Vsemirnyj Russkij Narodny Sobor (Concilio mondiale popolare russo), al cui lanciò lavorò l’attuale patriarca, allora metropolita e responsabile delle Relazioni estere della sua Chiesa. Nel 2008, poi, uscì il documentario Il crollo dell’impero, centrato sull’idea di una Russia assediata dal male e da un Occidente privo di valori, e di una Mosca impegnata nel destino di «terza Roma». L’autore era Tikhon Shevkunov, spesso definito “il confessore” o “il padre spirituale di Putin”, oggi metropolita di Pskov e braccio destro dello stesso Kirill.

Teorie vecchie di secoli, risuscitate e portate all’attenzione della politica dalla Chiesa kirilliana.

La seconda è che il Patriarca gioca, all’interno del mondo ortodosso, la stessa partita che Putin gioca nel russkij mir e con l’Occidente. Non una partita secondaria (il Cremlino decide e io l’appoggio) ma una uguale e parallela. Gli scossoni sono cominciati nel 2016, quando il patriarcato russo disertò il Concilio pan-ortodosso convocato dal patriarca ecumenico Bartolomeo, giudicato troppo sensibile al richiamo dell’ecumenismo e sospettato di voler fare il “Papa degli ortodossi”.

Cosa insopportabile per un patriarcato che sente di rappresentare la più grande comunità del mondo ortodosso e pensa di essere centro e cuore di quel mondo. La frattura è arrivata nel 2018, quando lo stesso Bartolomeo ha concesso l’autocefalia alla Chiesa ortodossa dell’Ucraina, voluta in chiave nazionalista dal presidente ucraino Petro Poroshenko in un processo animato dietro le quinte dal ribelle metropolita Filaret di Kiev, 93 anni, nel 1990 candidato al patriarcato di Mosca ma sconfitto da Aleksii II, allora appoggiato proprio da Kirill.

Nella visione di Kirill, l’influenza dell’Occidente mandava in frantumi l’unità (e la «diversità», come detto all’inizio) di quel mondo ortodosso su cui pensa di esercitare la primazia. Non c’è da stupirsi, quindi, se la guerra di Putin è per lui quella del bene contro il male. Il Patriarca, però, non può occupare territori o imporre il coprifuoco. Il ramo ucraino della “sua” Chiesa, già autonomo nell’amministrazione e nella nomina dei vescovi, lo sta abbandonando.

Il metropolita Onufry non osa lo strappo finale ma le 12 mila parrocchie (40% di tutte quelle del Patriarcato di Mosca) se ne vanno, trascinate dai fedeli sconvolti dalla guerra. E altrettanto succede in Lituania, dove il metropolita Innokentyj, pure tra i primi a pronunciarsi contro l’invasione dell’Ucraina, ha perso ormai quasi tutti i 60 sacerdoti. Per non parlare della Chiesa ortodossa all’estero o delle parrocchie dell’Europa occidentale ch’erano rientrate nell’alveo del Patriarcato nel 2004. E non v’è destino più paradossale per un religioso che, prima di diventare Patriarca, nell’Europa occidentale era di casa e che ancora nel febbraio 2016 abbracciava il Papa all’Avana.

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