sabato 17 febbraio 2018
Il percorso verso l'Europa appare lungo e difficile, non risolti i problemi con Belgrado e disoccupazione al 30 per cento. E le ferite della guerra, come ricorda Caritas in un dossier, restano
Il monumento all'indipendenza a Pristina (Ansa)

Il monumento all'indipendenza a Pristina (Ansa)

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Oggi, dieci anni fa, il Kosovo proclamava unilateralmente la propria indipendenza dalla Serbia, indipendenza poi riconosciuta da 115 Paesi. Era il 17 febbraio del 2008 e nella dichiarazione si sottolineava l'aspirazione "ad essere pienamente integrati nella famiglia Euro-Atlantica delle democrazie" e "l'intenzione di compiere tutti i passi necessari a facilitare una piena adesione all'Unione Europea". Ma ad oggi, così emerge dal documento sulla strategia per l'allargamento ai Balcani occidentali del 6 febbraio scorso della Commissione Europea, le prospettive di un simile passo sono "remote". E le sfide, sottolineano gli analisti,
oscurano le celebrazioni.

Uno degli ostacoli è rappresentato dall'opposizione di alcuni stati membri che non riconoscono l'indipendenza, dalla Grecia, alla Slovacchia a Cipro, alla Romania, alla Spagna, la cui intransigenza si
è rafforzata dopo i fatti di Catalogna. Pristina dovrebbe inoltre accogliere alcune condizioni esterne, come la definizione del confine con il Montenegro o l'accordo di normalizzazione con la Serbia, o la cooperazione con le istanze giuridiche che indagano sulle responsabilità dell'Esercito di liberazione del Kosovo durante il conflitto con la Serbia. E a questi vanno aggiunti i problemi endemici del Paese, il più giovane d'Europa, con il 53% della popolazione di età inferiore ai 25 anni: corruzione, criminalità organizzata e la divisione di fatto lungo linee etniche malgrado i richiami alla mutietnicità contenuti nella Costituzione del 2008.

Un disoccupato su tre

Un mese fa a richiamare l'attenzione sui nodi ancora irrisolti della ex provincia di Belgrado è stato l'omicidio del politico serbo-kosovaro Oliver Ivanovic, ammazzato a Mitrovica, la città kosovara divisa in due lungo linee etniche. Ivanovic aveva denunciato la politica condotta da Belgrado in Kosovo, unico politico serbo-kosovaro prominente a farlo. Le relazioni tra Pristina e gli alleati occidentali sono tese da un anno a questa parte, da quando cioè Pristina ha deciso di dotarsi di un esercito e poi da quando i deputati kosovari hanno tentato invano a dicembre di abolire la corte internazionale che dovrà giudicare i crimini di guerra imputati all'Uck, i cui ex leader sono alla guida del Paese. Uno stato giovane con una popolazione segnata dal tasso di disoccupazione del 30% e che deve anche difendersi dai rischi dell'Islam radicale, negli ultimi anni circa 315 persone, tra loro decine di donne e bambini, si sono unite al Daesh.

Il dossier della Caritas

Il suo unico desiderio era tornare a casa. Per il tempo sospeso della guerra, Asjia aveva atteso. Terminato il conflitto, era potuta finalmente rientrare nella sua dimora, sulle colline di Sarajevo. La struttura era ridotta in macerie. Ma Asjia non si era persa d’animo: subito si era messa a ripulire il giardino, prima di cominciare la ricostruzione. Il suo piede, però, ha attivato una mina sepolta: l’esplosione le ha tranciato le gambe. Asijia è una delle molte vittime della post- guerra balcanica. Perché anche dopo la loro conclusione, i conflitti, spesso, continuano ad uccidere. Come rivela un recente rapporto di Caritas italiana, in Bosnia Erzegovina – il Paese più minato d’Europa –, negli ultimi vent’anni, gli ordigni hanno dilaniato 1.751 persone, uccidendone 612. Gli ultimi dodici sono morti nel 2017. In Kosovo – di cui oggi ricorrono i dieci anni dall’autoproclamata indipendenza dalla Serbia –, dal 1999, ci sono stati 576 incidenti e 117 morti. Non è, però, solo lo sminamento del terreno a procedere a rilento. Anche le coscienze – incluse quelle delle nuove generazioni – continuano ad essere “armate”.

Da qui il titolo del dossier di Caritas, “Futuro minato”. Attraverso un sondaggio fra i giovani, nati al termine dei conflitti balcanici, l’organizzazione ha indagato l’eredità della guerra. I risultati rivelano l’assenza tuttora di una «memoria collettiva condivisa ». Permangono «opposte visioni delle vicende storiche e a far sì che ognuna delle parti si riconosca come “vittima” additando l’altra come “responsabile”». Per tale ragione, Caritas è impegnata in vari programmi nei Balcani per promuovere la riconciliazione attraverso il supporto alle vittime, ai superstiti e ai loro familiari. Progetti volti a “ricucire” il tessuto sociale strappato dai conflitti. Il primo passo per disarmare le coscienze.

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